
Tra pochi giorni ci saranno le elezioni europee. Lo scontro politico e partitico sembra rimanere confinato tra due ipotesi che, a mio avviso, sono residui di un passato più o meno recente. Un passato che ha esaurito la propria “spinta propulsiva” e sembra più una stanca rappresentazione di ciò che era la lotta politica che un confronto reale. Se non avesse risvolti drammatici per le vite dei più, sarebbe una replica scialba e insignificante. Da un lato, infatti, abbiamo un fronte composto sia dalle forze politiche che si resero protagoniste della scelta neoliberista e monetarista per il modello europeo e sia dalle forze che si arresero alla “potenza” di quella proposta politica, sotto l’ombra del crollo dell’URSS, omologando le proprie prospettive politiche. Sono le forze che stabilirono i contenuti del Trattato di Maastricht e che si sono contese, per circa 30 anni, la direzione a livello nazionale ed europeo della politica e del governo. Certo, sono anche le forze politiche che accettarono le ricette sociali ed economiche indicate dal FMI per far convergere le varie economie all’interno dei parametri e invertirono di 180° il rapporto con la legittimazione al fare.
Passarono dalla ricerca del consenso (e la rappresentanza) delle persone, al consenso ricercato degli apparati tecnocratici che dovevano garantire la tenuta globale del processo. Apparati, spesso, poco indipendenti rispetto agli interessi dei grandi investitori globali che, sull’altare dello sviluppo della finanza slegato dalla attività produttiva classica, dispiegavano il loro modello economico-sociale. Fu così che molte forze politiche smarrirono il loro insediamento sociale, persero la capacità di rappresentanza e inseguirono progetti sempre più “asettici” slittando dalla rappresentanza sociale ad un modello di rappresentanza di tipo “civile”. Una scelta che non solo ha disgregato il proprio “popolo” di riferimento, ma ha messo a rischio di “contrapposizione idealistica” sia la lotta politica sul versante classico, sia quella degli stessi diritti civili. Sono le forze che si illusero di salire sul carro dei processi di globalizzazione con l’idea che l’Europa, in quanto mercato economico più grande, avrebbe ottenuto ben presto il comando generale dei processi scalzando gli USA dalla tolda della direzione. Una illusione che ben presto si evidenziò non solo per la mancanza di una strategia unitaria europea, ma per la cecità rispetto ai nuovi paradigmi produttivi digitali che stavano trasformando il lavoro, le merci, l’economia, l’intelligence, le relazioni tra individui, le relazioni sociali, il controllo dei flussi di comunicazione, i paradigmi scientifici, la genetica, l’automazione, le armi, ecc…
È la prima volta nella storia, probabilmente, che una rivoluzione del paradigma delle società umane non ha il suo centro nel Mediterraneo e nell’Europa. E questo rappresenterà un declino strategico di cui la nostra generazione porterà il segno. L’illusione che per riprendersi l’egemonia nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale sarebbe stato sufficiente affiancare, al mercato più grande del pianeta, una moneta propria (senza una dimensione politica unitaria), fu un errore tragico, soprattutto di quei dirigenti dei partiti che avevano la loro origine nell’alveo del movimento operaio. L’Euro non avrebbe mai potuto scalzare il dollaro come moneta di scambio planetario senza una autorevolezza e una autonomia politica delle istituzioni, mai in una condizione di sudditanza militare e strategica, in particolare nel settore del controllo della comunicazione.
Sull’altro versante abbiamo il revanscismo di alcuni settori della società che pesca a piene mani nella crisi sociale e produttiva generata dalle politiche neoliberiste e monetariste. Il paradosso è che sono gli stessi settori che, a suo tempo, contestavano la lentezza con la quale si marciava sulla strada della globalizzazione e consideravano il movimento di donne e uomini che si opponeva al processo economico neoliberista, come residui del passato. Pensiamo solo a Genova 2001 e al movimento dei Forum Sociali. Siamo all’assurdo che chi vide per primo il dirupo nel quale si stava cacciando la società europea e contestò quelle scelte economiche chiedendo una politica altra, attenta alle condizioni sociali, ai diritti del lavoro e alle sue condizioni, è oggi smarrito e sembra non avere il coraggio di prendere il comando della contestazione del modello economico-sociale. Un arco di forze sembra evaporato sotto l’incessante assillo degli accordi politici elettorali, degli “equilibri istituzionali”, che stanno portando la sua stessa rappresentanza politica alla sostanziale prossima cancellazione o totale residualità, nella scena politica nazionale ed europea.
Sembra incredibile, eppure questo è il dato materiale che abbiamo di fronte. Davanti alla dissoluzione dell’ipotesi globalizzatrice degli anni ’90, in campo sembrano esserci solo due proposte: una, quella della razionalizzazione, anche profonda, ma di questo sistema e l’altra, quella del ritorno alle piccole illusioni nazionalistiche, autarchiche che, dalla loro, hanno la forza di essere antagoniste al mondo morente (e, quindi, percepite alternative al sistema in crisi) poggiando sulla idea della restituzione della sovranità a chi si sente derubato non solo del diritto al consumo, ma della stessa dimensione della politica. In altre parole, escluso. Eppure, non tutto è così nebuloso.
In questi ultimi mesi, infatti, una generazione nuova è scesa in campo con un concreto obiettivo “politico”. Un obiettivo che va ben oltre un aspetto “etico” o “morale”. Chiede un futuro per la loro generazione, un futuro per il pianeta, un nuovo modello di sviluppo, rivendica un modello sociale diverso, modelli di consumo meno invasivi e compatibili, una vita diversa da quello che il modello capitalistico (neoliberista o meno) ha in serbo per il mondo. Ecco, io mi sarei aspettato una grande discussione, un grande incontro con un movimento ancora fragile, sì, ma con un potenziale enorme in termini politici e generazionali, dirompente per gli attuali assetti dei poteri e del fare. Mi sarei aspettato che in Europa, invece di invocare il nuovo, il “nuovo” avesse trovato porte aperte nelle liste elettorali di quella che dovrebbe chiamarsi la “sinistra politica”. Una accoglienza anche “dialettica”, con un movimento ancora fresco, per alcuni versi in embrione, ma che rappresenta la vera novità politica in grado di rispondere al sovranismo, sul piano culturale, politico ed economico. Una risposta non meccanica o “quantitativa”, una risposta non “interna” al sistema, non con una rincorsa a chi farebbe funzionare meglio “questa” realtà, ma portatore di una istanza di cambiamento profondo del modello produttivo, economico e sociale. Un movimento che nel riconoscere l’altro da sé come un valore (anche su una dimensione globale e planetaria) pratica già una risposta nuova alle militanze delle nuove destre.
Le condizioni per una politica nuova ci sono. Basta uscire dai soliti vecchi schemi.
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