
Walter Tobagi, quarant’anni dopo. Ai lettori più giovani, probabilmente, questo nome dice poco e magari non trasmette alcuna emozione; tuttavia, è bene che sappiano chi sia stato. Bando alla retorica: il soggetto in questione la detestava, al pari della disonestà intellettuale. Tobagi era un cronista vecchia scuola, uno di quelli che vanno sempre in prima persona, che consumano le scarpe, che non si accontentano mai ma, soprattutto, era uno scavatore di dettagli, un attento scopritore di emozioni, umori, stati d’animo, senza mai cedere alla tentazione squallida dello scoop e senza mai rassegnarsi alla spesso fallace evidenza dei fatti. Come ricordava Enzo Biagi in un articolo pubblicato quindici anni fa, in occasione del venticinquesimo anniversario della scomparsa, aveva “la dignità di chi vuole soltanto capire”. Indagava sul terrorismo di sinistra, condannava la violenza, il pregiudizio, l’ideologismo scomposto e si interrogava anche sui sindacati, sul loro ruolo, sulla loro funzione storica e sociale in un decennio, gli anni Settanta, in cui per fortuna contavano assai più di adesso. Possedeva il dono della scrittura, aveva quasi la febbre del racconto. Amava il suo lavoro e difendeva coraggiosamente i colleghi, attraverso un’attività sindacale instancabile e una passione civile che lo rendevano simpatico a molti e dannatamente antipatico a certi padroni del vapore e a coloro che hanno sempre odiato il riformismo nella sua accezione più nobile.
Tobagi, infatti, era un nemico giurato di ogni violenza, rifiutava gli eccessi, le estremizzazioni, il disfattismo e il catastrofismo fine a se stesso. Era amico della chiarezza, ne aveva fatto la propria bussola fin da quando muoveva i propri passi sulla mitica Zanzara del Parini, su cui, a quindici anni, intervistò il giovane mediano rossonero Giovanni Trapattoni, esordendo come giornalista sportivo in una stagione in cui le penne che si occupavano di sport, specie nella scuola lombarda, erano quasi tutte di altissimo livello. Non ha mai smesso di amare lo sport, di indagare la società nel profondo, di scandagliarla, di percorrere chilometri e di cimentarsi nell’artigianato del cronista di razza, evitando ogni forma di divismo, di esagerazione, di vanità. Gli erano estranei i morbi che già all’epoca infestavano la professione, a cominciare dal desiderio di alcuni di porsi davanti ai fatti, trasformando se stessi nella notizia e finendo col fornire un’immagine distorta della società.
Tobagi indagava sulle ragioni profonde del terrorismo, senza mai puntare il dito, senza la presunzione del giudice, senza seguire le mode né assecondare la deriva allora in atto che tendeva a giustificare ciò che giustificabile non era. Scriveva con la penna di chi ama il suo prossimo, di chi si preoccupa per le sorti della società, di chi vorrebbe cambiarla senza strepiti né smanie rivoluzionarie, di chi sogna un avvenire migliore per i propri figli. Nel ’79, occupandosi della tragedia del giudice Alessandrini, a sua volta assassinato dal terrorismo di sinistra, pose l’accento sulla sorte dei riformisti che cadevano come mosche sotto i colpi di chi, in realtà, voleva che tutto restasse com’è per poter lucrare sulle disgrazie di un contesto che già in quegli anni non funzionava più. Una profezia che si è autoavverata, in entrambi i casi. Walter Tobagi cadde sotto i colpi della Brigata XXVIII marzo alle ore 11 del 28 maggio 1980, in uno degli anni più strazianti della nostra storia recente. Cadde prima delle stragi di Ustica e di Bologna, nell’anno che aprì un decennio che si sarebbe rivelato, per reazione, del tutto diverso rispetto al precedente. Diverso e, purtroppo, sia pur per ragioni opposte, non migliore.
La dignità di chi voleva soltanto capire era stata abbattuta. Il suo stile, il suo ricordo e la sua vasta eredità, per fortuna, sono ancora fra noi e vi rimarranno per sempre.
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