Sergio Gentili. La crisi climatico-ambientale e l’alternativa di società

Sergio Gentili. La crisi climatico-ambientale e l’alternativa di società

Pubblichiamo l’intervento di Sergio Gentili al convegno “A trent’anni dal crollo del muro di Berlino, la fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo”.

Una premessa.

Oggi possiamo dire che il periodo detto “89”, ha segnato una battuta d’arresto della prospettiva socialista in l’Occidente. Molti a sinistra hanno contestato la teoria della “fine della storia”. Ma alla domanda su cosa ci potrà essere dopo la società liberaldemocratica non hanno saputo rispondere. La risposta venuta è da Trump.  Ed è quella sbagliata. La risposta che dà questo convegno la condivido, cioè che vi è l’“esigenza di un nuovo socialismo”. E ciò perché l’umanità si trova in un passaggio d’epoca. Nuove consapevolezze.

Veniamo al tema che mi è stato assegnato:  “La crisi climatico-ambientale e l’alternativa di società”. Il «futuro di noi tutti» è compromesso dal continuo e crescente degrado della biosfera che è dovuto: a modelli sociali ed economici dissipativi e inquinanti che determinano una insostenibile impronta ecologica della popolazione mondiale e in particolare di quella ricca. Da decenni, l’umanità è sottoposta a fenomeni ambientali estremi: inondazioni, allagamenti, scioglimento dei ghiacciai, e contemporaneamente è flagellata dalla siccità, dalla desertificazione, dagli incendi devastanti come in Australia e nelle foreste dell’Amazzonia. A questi fenomeni vanno affiancati: la riduzione della biodiversità, l’inquinamento del suolo e delle acque, l’ineguale redistribuzione delle risorse naturali e la crescita della popolazione mondiale.

Pertanto occorre prendere coscienza di due verità: la prima, è che questi fenomeni ci dicono che siamo dentro una crisi epocale; la seconda, è che il capitalismo liberista ne è una delle cause e certamente non sarà la sua soluzione. Negli ultimi 50 anni, la contraddizione ecologica ha messo in discussione certezze culturali e politiche. Essa richiede nuove consapevolezze. Almeno su 4 questioni: la prima, il rapporto tra genere umano e  natura: il vecchio antropocentrismo di dominio sulla natura va sostituito con quello della coevoluzione,  dell’interdipendenza e della cura delle specie che popolano la terra; la seconda, è che esistono limiti fisici e biologici del pianeta, e il principio del limite e della tutela ecologica deve contrastare lo spreco delle risorse e del degrado degli ecosistemi; la terza, è che l’aumento della temperatura del pianeta è una vera emergenza perché è un pericolo reale; la quarta questione di cui prendere coscienza, è l’enorme potenza della scienza.

Sappiamo che l’umanità può essere distrutta con l’arma atomica, che la genetica può manipolare la vita tutta e che le “tecnologie  dell’informazione e della comunicazione”, cioè quelle tecnologie che hanno modificato il lavoro, la finanza, i cicli produttivi;  che hanno inventato nuove merci e servizi;  che hanno inciso sulla politica e sugli assetti militari; quelle tecnologie che hanno  centralizzato nelle mani di pochi ricchi gli organi d’informazione e le piattaforme informatiche, possono essere strumenti di dominio e di diseguaglianze. Ma sappiamo, pure, che la scienza è in grado di aprire all’umanità scenari di pace, di liberazione e di avanzamento civile e umano.

Ma, in questa, epoca a chi spetta decidere quali dovranno essere i nuovi cambiamenti?

I liberisti rispondono, come sempre, che le decisioni le prende spontaneamente il libero mercato; i neonazionalisti trumpisti dicono che a decidere deve essere l’America, “prima gli americani”, con i dazi, la tecnologia e le loro armi.

Entrambe le risposte, però, ripropongono il comando delle stesse oligarchie composte da quel 1% più ricco del mondo.

Queste sono le risposte dei conservatori e dei reazionari, funzionali a conservare gli attuali rapporti capitalistici di produzione. Rapporti sociali che sono mutanti nella forma e nella composizione sociale, come abbiamo visto, e oggi, addirittura, sono profondamente differenti dal passato recente. Quelle risposte non sono all’altezza della moderna contraddizione che vive l’Occidente e che possiamo chiamare la “nuova questione sociale”. E che consiste in una forte capacità produttiva e finanziaria del sistema globalizzato ma che, da una parte, poggia su una massa enorme di poveri, sulle delocalizzazioni e la svalutazione e l’impoverimento del lavoro dipendente e dei ceti medi, dall’altra parte, aumenta il degrado ecologico e delle guerre. La risposta giusta alla domanda  “chi decide?” è che a decidere siano le popolazioni, le loro forze sociali e gli Stati che le rappresentano.

Questa risposta va al cuore di uno degli attuali conflitti di fondo.

Infatti, emerge con evidenza una sorta di “dualismo di potere”, tra il potere delle grandi multinazionali, cioè i proprietari privati dei mezzi di produzione, scientifici e finanziari, con i poteri democratici dei popoli e degli istituti democratici: sindacati, partiti, associazioni, Stati e istituzioni sovranazionali. Parafrasando Marx della famosa “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica” (1859), possiamo dire che le forze produttive, gli Stati e gli istituti democratici entrano in contraddizione/contrasto con i rapporti produttivi e di potere dei grandi gruppi economico-finanziari globalizzati e con le strutture e gli ordinamenti che essi creano o controllano. E, dice Marx, “Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”

Il merito del conflitto

Quali sono oggi i punti del conflitto? Sono diversi  e interdipendenti. Ne indico solo due: la tutela dell’ambiente e il valore del lavoro. Ciò perché lavoro e ambiente sono saldati insieme e rappresentano il tallone d’Achille dell’attuale capitalismo finanziarizzato. La questione dei cambiamenti climatici indica un conflitto di fondo e l’umanità, per ora, sta perdendo. Non descrivo i fenomeni, faccio solo dei richiami generali: a) Le emissioni di gas serra  e le polveri sottili sono in continuo aumento; b) gli accordi di Parigi del 2015, non funzionano. Essi indicano l’obiettivo di non superare un aumento della temperatura di 1,5°-2° e, per raggiungerlo, propongono di ridurre le emissioni del 40-70% nei prossimi 20-30 anni. Gli scienziati dicono che negli stessi anni è necessario e possibile azzerale. Gli accordi, poi, sono su base volontaria e di fronte all’attuale urgenza rappresentano un vero “non senso”. Infatti, indicano una scarsa volontà politica tanto che la Conferenza mondiale sul clima, cop 25, tenutasi a Madrid nel dicembre scorso (2019), è stata un fallimento. Per raggiungere quegli obiettivi occorrerebbe accelerare la transizione del sistema energetico passando dalle fonti fossili a quelle rinnovabili; occorrerebbe riassorbire l’anidride carbonica con vaste piantagioni, modificare il sistema dei trasporti, rafforzare il risparmio energetico, intervenire sull’agricoltura ecc. Gli scienziati dicono che abbiamo pochissimo tempo: 15-20 anni per fare tutto ciò. Oggi, come per il Protocollo di Kyoto del 1997, c’è una forte resistenza degli Stati Uniti che si chiamano fuori. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono davanti ai  nostri occhi quotidianamente. Tutti i paesi e tutte le economie del mondo ne stanno già pagando le conseguenze. Le popolazioni più povere (cioè miliardi di persone) sono e saranno sempre più le più colpite. E le ondate migratorie e i conflitti aumenteranno inevitabilmente. Le misure per contrastare questi fenomeni sono conosciute da diversi decenni. Sottolineo decenni. Sono scritte, nel dettaglio, in molti documenti di scienziati, di conferenze internazionali dell’ONU e nei rapporti del “gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici”, (IPCC).

Eppure quelle misure, non vengono adeguatamente applicate, anzi sono ignorate da troppi governi e dalle forze economiche e della finanza, sono anche contestate apertamente o richiamate retoricamente ma non applicate. Come mai? chi si oppone? Queste sono domande a cui va data una risposta se si vuole cambiare realmente. Ad opporsi sono le forze economiche legate al vecchio modello dissipativo, industrialista e finanziario, sia d elle economie centralizzate, sia di quelle capitalistiche con le loro lobby, Quest’ultime finanziano intellettuali, media e politici per negare e per raccontare che sarà il libero mercato, o i dazi, a risolvere tutte le questioni, basta “lasciar far”. Trump, addirittura, nega la crisi ecologica, ha detto che è una invenzione della Cina e a Davos ha etichettato gli ecologisti, cioè scienziati, chiesa cattolica, ONU e la giovane Greta lì presente, di essere dei “profeti di sventura”. Queste affermazioni dovrebbero essere denunciate al “Tribunale penale internazionale” per istigazione a crimini contro l’umanità e la natura. Per non parlare di Salvini, che per negare arriva a confondere le previsioni del tempo con i cambiamenti climatici, come ha fatto nei suoi comizi. Mentre dovrebbe sapere che  l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm), fin dal 2015, ha affermato che il pianeta è entrato in una nuova era climatica. Dietro queste forze ci sono le multinazionali dell’agricoltura, della zootecnia, della chimica e i grandi proprietari terrieri. Ma, in particolare, ci sono le grandi multinazionali petrolifere e gli Stati che basano la loro economia sulla vendita del petrolio e del gas.

Sono le stesse forze che da decenni alimentano le terribili e vergognose guerre in Medio Oriente.

Anche Papa Francesco, li ha indicati nell’enciclica “Laudato sii” quando dice: “L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente […]. Ancora una volta, conviene evitare [di] pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui” [occorre] “cambiare il modello di sviluppo globale […] Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro.”

Una unica crisi

Papa Francesco segnala che esiste una unica crisi, come diciamo da tempo, che è ecologica e sociale che rende scarti miliardi di persone povere e fa regredire le democrazie. Anche questa tesi rende evidente come la crisi delle attuali società capitalistiche sia di fondo. Per questo, le forze che si richiamano alle idealità socialiste ed ecologiste, debbono urgentemente innovare la loro cultura politica sulla base della saldatura e inscindibilità dei valori dell’uguaglianza, della solidarietà, della democrazia, della pace con il valore della tutela della natura. La separazione, che ancora c’è, tra pensiero ecologista e le idealità socialiste ha menomato il movimento operaio della propria capacita di visione, (del “comune destino dell’uomo”, direbbe Palmiro Togliatti) d’iniziativa e di progettazione sociale, e ha reso privi di radicamento sociale gli ecologisti.

  • Ora, considerando che siamo in una fase di transizione, come ci si deve stare?

Certamente esplicitando l’approdo verso cui si vuole andare. Va dichiarato che l’approdo possibile, ma non sicuro, è quello di una società democratica ecosocialista che liberi il lavoro e la natura dallo sfruttamento. Ma questo approdo è possibile, sta nelle cose o è un’aspirazione astratta, una nuova e nobile utopia? La risposta è che sta nelle cose ed è possibile. Anzi, è una necessità e rappresenta una grande opportunità. Perché? Vediamo nel concreto.

Per combattere il degrado ecologico e per creare lavoro, occorrono urgenti riforme strutturali su: il sistema energetico, i trasporti, le risorse idriche, l’agricoltura, la difesa del suolo, le città, l’uso e recupero dei materiali quindi i rifiuti, i parchi e gli habitat per difesa  della biodiversità, il mare e i beni storico-culturali e tanti altri settori. E si rendono necessari interventi su un insieme di merci: le plastiche, gli elettrodomestici, i motori, gli acciai, i materiali chimici, le vetture, le abitazioni … qui si apre un mondo di merci che vanno riprogettate. Per di più, molti di questi segmenti economici sono in crisi da tempo e contrastano con l’ambiente e le politiche liberiste ne portano la responsabilità.

Lo sviluppo sostenibile

Viceversa, le riforme socio-ecologiste (ci sono varie terminologie che vi corrispondono come green economy, economia circolare, sviluppo sostenibile) sono la soluzione perché hanno nel lavoro e nella tutela ambientale il loro baricentro teorico e la loro ricaduta pratica.

Il lavoro, poi, è la chiave di volta che sostiene il tutto. Faccio due esempi che riguardando l’Italia e indicano un insieme di riforme ecologiste che creano lavoro: le grandi infrastrutture ecologiche: la difesa del suolo da frane, allagamenti e terremoti; il sistema energetico con le fonti rinnovabili, lo sviluppo della ricerca e dell’indotto tecnico e scientifico, l’efficienza energetica; i trasporti: estensione e qualità della rete ferrovia, il  cabotaggio e nodi della logistica; la tutela delle acque potabili e del mare: acquedotti, rete idraulica e fognaria, depurazione, riuso delle acque; il sistema delle aree protette e dei servici ecologici che forniscono; Città sostenibili: non solo chiusura al traffico ma mobilità sostenibile con tram, filobus, metrò, bus elettrici, ciclabilità intesa come modalità di trasporto, servizi di carsharing; impianti di riscaldamento e rinfrescamento; i rifiuti con il recupero della materia che rappresenta un nuovo segmento industriale (economia circolare); il recupero delle periferie con la  manutenzione e il restauro degli edifici per abitazioni e zero consumo del suolo, la messa in sicurezza di edifici pubblici: scuole, ospedali, impianti sportivi, musei; la custodia e la valorizzazione dei beni culturali e delle aree archeologiche (a Roma il rilancio del progetto Fori). Ancora, lavoro nelle bonifiche; lavoro nella ricerca scientifica e nel suo trasferimento alla società; lavoro nella nuova chimica, nella bio-agricoltura e nell’agro industria … l’elenco potrebbe continuare a lungo. Per lo sviluppo sostenibile la ricerca scientifica e le nuove tecnologie sono essenziali, sono già disponibili e hanno la forza dirompente che ebbe la macchina a vapore. Scienza e tecnologie, però, vanno liberate dalle logiche capitalistiche che le usano per eliminare il lavoro e per aumentare lo sfruttamento e il controllo sui lavoratori e la società.

Lo Stato

La ricerca scientifica, lo sappiamo, si sviluppa solo se c’è il sostegno pubblico. Anche per questo, va rilanciato il ruolo dello Stato. È lo Stato, infatti, che può garantire una equa e consapevole mobilitazione delle grandi risorse collettive necessarie per le riforme: mondo del lavoro, professioni, università, centri di ricerca, impresa innovativa, cooperazione, volontariato, cittadini. E può raccogliere e garantire i finanziamenti necessari. Agli input della programmazione pubblica sono interessati grandi comparti economici (quelli prima richiamati).

Ma di quale Stato c’è bisogno?

Nel secondo dopoguerra, con la sconfitta del nazifascismo si è affermata una nuova idea di Stato, fondata sulla partecipazione democratica e sul riconoscimento dei diritti sociali e del lavoro (come scritto nella Costituzione italiana). Ciò ha condizionato il potere dei grandi gruppi finanziari e industriali. La globalizzazione liberista, nel suo lungo trentennio, ha contrastato il ruolo dello Stato, ha stravolto la sua funzione sociale e con le privatizzazioni ha sottratto ricchezza e beni pubblici ai cittadini. Ma dopo la gigantesca crisi del 2008, lo Stato è tornato indispensabile per salvare il sistema finanziario e industriale capitalistico. A quel tipo di intervento pubblico, però, non sono seguite le riforme democratiche necessarie. Pertanto si rende indispensabile superare lo Stato “rattoppatore” che salva i grandi gruppi economico-finanziari dai loro fallimenti con i soldi di tutti e poi gli riconsegna il potere e gli affari. Non va bene, neppure, uno Stato accentratore, burocratico e privo di partecipazione democratica. In Occidente appare necessario uno Stato democratico e responsabile verso la collettività e l’ambiente ed è il solo in grado di mobilitare grandi energie, di programmare, di  indirizzare e di controllare. E se necessario, dovrebbe anche gestire direttamente segmenti economici strategici come avrebbe dovuto fare in Italia per l’Alitalia, l’Ilva e la gestione dei monopoli naturali. L’U.E. non è affatto adeguata a sostenere la fase delle riforme socio-ecologiche, perché costruita su principi, logiche e politiche liberiste che nella crisi hanno difeso i poteri forti e penalizzato lo stato sociale, il lavoro e la democrazia. Le sue politiche hanno suscitato il malessere e la protesta sociale di cui si sono avvantaggiate le forze di destra sovraniste e razziste.

Il cambiamento

I grandi partiti socialisti, in questo quadro, sono ancora confusi, drammaticamente compromessi con il liberismo e separati dai bisogni popolari. Ancora non hanno ben chiaro che si è ad un bivio, che bisogna scegliere. Con Sanders e Corbyn qualcosa comincia muoversi. Il bivio. La scelta è tra la riproposizione di Stati passivi a democrazia regrediente con una partecipazione minima e controllata, e l’affermazione di Stati democratici interventisti, guidati da una pluralità di forze, con una democrazia a forte partecipazione popolare. Scegliere e lottare coerentemente, metterebbe in atto un processo di trasformazione, che va concepito come una fase di costruzione di un nuovo blocco storico, composto da un largo e plurale arco di forze, dentro cui l’attuale classe operaia, le forze del lavoro, svolgono un ruolo essenziale d’indirizzo ideale e programmatico. Un ruolo non esclusivo, anzi, in simbiosi con l’insieme delle forze progressiste e popolari. È in questo processo, non di breve periodo, che dovranno essere valorizzate e fatte crescere forme economiche non capitalistiche.

Quali sono le forze interessate al cambiamento?

Un’ultima considerazione. La sola necessità di cambiare, però, non determina automaticamente il cambiamento. Per realizzarlo, proprio per la sua valenza epocale e per le potenti resistenze che si debbono combattere e vincere, è necessaria la mobilitazione cosciente delle grandi forze del lavoro, di immense masse popolari e dell’impegno delle forze intellettuali e morali in un quadro di interdipendenza internazionale pacifica. Le forze interessate al cambiamento ci sono. Esse vanno dal vasto e indispensabile mondo degli operai con i ceti medi. Ci sono le enormi energie dei giovani, che pur istruiti sono precarizzati, sottoutilizzati, mortificati, scoraggiati o disoccupati, molti costretti ad emigrare. Ci sono le grandi energie del femminismo, dei movimenti per i diritti civile e l’ambiente.

In Italia, è sorto il movimento civile e antifascista delle Sardine. Poi c’è tutto il mondo del pubblico impiego: milioni di persone che lavorano non per il profitto privato ma per il benessere collettivo come: il mondo della scuola, dell’università, della ricerca, della sanità e della sicurezza; le aziende pubbliche. E ancora, le imprese private e cooperative legate alla finanza e alla spesa pubblica. L’elenco potrebbe andare avanti per molto. Quello che manca però è una visione, teoria e politica, in grado di unire e leggere questi soggetti, con le loro diversità, come una unica forza protagonista del cambiamento. Qualcosa mi pare si stia muovendo in questa direzione nella CGIL di Landini.

In assenza di una visione unitaria tutto appare frammentato e contrapposto. Il cambiamento sembra non solo difficile ma impossibile. Ma sono percezioni sbagliate frutto dell’assenza di partiti politici popolari finalizzati al cambiamento immediato e di prospettiva. Una grande responsabilità ce l’hanno i partiti di sinistra a cui manca la volontà politica di rendere quelle forze protagoniste e classi dirigenti, e ciò perché le considerano solo massa di manovra elettorale, come sommatoria di voti e di preferenze. A questo punto, però, si aprono altre questioni, che per valutarle occorrerebbe un altro convegno.

Share