Carola Rackete agì in adempimento del dovere di soccorso in mare e correttamente. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni della sentenza

Carola Rackete agì in adempimento del dovere di soccorso in mare e correttamente. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni della sentenza

Carola Rackete agì “in adempimento del dovere di soccorso in mare” e “correttamente”. Il giudice delle indagini preliminari di Agrigento non convalidò il suo arresto ritenendo configurabile questa “causa di giustificazione” che “comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e fermo”. I giudici della III sezione penale della Suprema corte di Cassazione, presidente Grazia Lapalorcia, spiegano nelle motivazioni della sentenza perché respinsero il ricorso contro l’ordinanza con cui il 2 luglio dello scorso anno, non venne convalidato l’arresto della capitana della Sea Watch, eseguito giorni prima a Lampedusa. Gli ermellini spiegano in un passo del provvedimento di 17 pagine che le convenzioni internazionali in tema di soccorso in mare, e, “prima ancora l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno”, in base all’articolo 10 della Costituzione, “tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima” sono il “parametro normativo” che ha guidato il gip di Agrigento “nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto” di Rackete, “in una situazione nella quale la causa di giustificazione era più che verosimilmente esistente”. E quindi “l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro”, e tale non può essere qualificata, “una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone”.

Né, si legge ancora nella sentenza, “può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio della nave e con la loro permanenza su di essa, perché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave”. Pure il Consiglio d’Europa, ricorda la Corte, ha stabilito che “la nozione di luogo sicuro non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali”. Le navi della Guardia di finanza “sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra”, si aggiunge. “Per poter essere qualificata come ‘nave da guerra´ l’unità della Guardia di finanza deve altresì essere comandata da un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il che nel caso in esame – osserva la Suprema corte – non è dimostrato”.

Infatti – spiegano i giudici – “non è sufficiente che al comando vi sia un militare, nella fattispecie un maresciallo, dal momento che il maresciallo non è ufficiale. Né peraltro il ricorso documenta se tale maresciallo avesse la qualifica di cui sopra. Dunque – concludono – non è stata dimostrata la sussistenza di tutti i requisiti necessari ai fini della qualificazione quale nave da guerra della motovedetta della Guardia di finanza nei cui confronti sarebbe stata compiuta la condotta di resistenza”.

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