Modifiche costituzionali, immigrazione, droghe leggere. È tutta una questione di “percezione”

Modifiche costituzionali, immigrazione, droghe leggere. È tutta una questione di “percezione”

C’è modo e modo di chiedere, conquistare, ottenere il consenso del popolo. Un modo, per esempio, e nella cosiddetta “prima Repubblica” era assai più in uso di quanto non si creda oggi, è quello di “persuadere” con proposte politiche, prospettive, facendo leva certo su interessi concreti, ma anche su idealità; non si dice che quei tempi fossero immuni da malversazioni, indebite appropriazioni, utilizzo privato della cosa pubblica. Se oggi c’è lo scandalo delle banche (più d’una, non solo quelle di cui si parla), non va dimenticato quello che è ormai passato alla storia come lo “scandalo Giuffré”, consumato nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, per il quale vennero chiamati in causa i ministri delle Finanze dell’epoca, Giulio Andreotti e Luigi Preti. Per non andar ancora più indietro nel tempo, quello di Giovanni Giolitti: la vicenda della Banca romana. Insomma: niente di nuovo sotto il sole. Comunque, ben più dovrebbe far riflettere la storia dei Rolex sauditi. Non tanto per gli orologi in sé, quanto per la dimostrazione di come i politici spesso si impiglino in vicende che non si sa bene come giudicare: “leggerezze” rivelatrici di dabbenaggine? Oppure delirio di arroganza e onnipotenza? In ogni caso, sintomo grave di un “fare” imperdonabile per chi, come scrive, da una vita, mescola politica ed etica; e non intende smettere di farlo proprio ora.

Ma al di là di questo preambolo: le cronache di queste ore mostrano, con solare evidenza, come la parola chiave di chi si è assunto il compito di sgovernarci sia: “percezione”. In nome della “percezione” (certificata, da quotidiani, ossessivi, ossessionanti sondaggi di opinione, di quella che si crede sia l’opinione? Chissà…), si condiziona questo o quell’altro atto di governo, questa o quella norma viene varata o accantonata, quell’atto amministrativo viene adottato per compiacere e non dispiacere. Vale per la politica fiscale, e le “mance” della legge di stabilità. Vale per temi di giustizia ed “etica” che, quelli sì, non dovrebbero essere negoziabili e negoziati. Vale per fino per la Costituzione.

Proprio dalla Costituzione si dovrebbe cominciare a fare un discorso serio. Sulle modifiche proposte dal governo Renzi, ovviamente, ognuno è libero di coltivare le idee che crede; a patto, che le varie posizioni possano essere conosciute e si sia messi in grado di valutarle; cosa che non avviene, per cui a ottobre si verrà chiamati a pronunciarci con un SI o con un NO chiamato “referendum”; ma tutto fa credere che in realtà si lavori perché sia una sorta di plebiscito: ne abbiamo già tutti i sintomi. Non si spiega, per esempio perché l’attuale sistema bicamerale perfetto è adeguato o no. Si dice che i sostenitori della modifica sono i “veri” (mi raccomando: “veri”) progressisti. Chi invece si schiera con il NO è un “vero” conservatore, se non peggio. Anche sul lessico si potrebbe eccepire: se si vuole conservare il buono, è cosa negativa? Ad ogni modo la Costituzione italiana non sarà la più bella del mondo, ma è un delicato meccanismo di pesi e contrappesi, attentamente studiati e soppesati, da personaggi che vanno da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Piero Calamandrei a Leonetto Amadei; da Umberto Calosso a Umberto Terracini, da Meuccio Ruini a Sandro Pertini; da Vittorio Foa a Giuseppe Lazzati; andatevi a rileggere quell’elenco, i resoconti stenografici di quelle discussioni, e il tempo impiegato per elaborare ciò che poi è diventata la Costituzione; e comparateli con i personaggetti di oggi, i tempi e le discussioni attuali. Ne ricaverete inevitabilmente un succo deprimente, avvilente. Ma al di là di questo. Quel che ci si dà a intendere è che il presidente del Consiglio, in un afflato di democrazia, a ottobre consentirà agli italiani di dire l’ultima, definitiva parola con un referendum.

È possibile, probabile che il presidente del Consiglio di Costituzione mastichi poco. Forse i suoi 140 caratteri non arrivano fino all’articolo 138 della Costituzione, che così recita: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.

Quindi, cominciamo con l’esser chiari: il referendum non è una “concessione” di palazzo Chigi. È previsto e prescritto dalla Costituzione. Giusto per amor di chiarezza.

Si può ora tornare alla “percezione”. C’è una legge, la cosiddetta Bossi-Fini che prevede l’illiceità, l’illegalità dell’esser clandestino in quanto tale, e a prescindere da quello che il clandestino fa; si è fuorilegge in quanto si è. Legge su cui si possono avanzare tanti dubbi, circa la sua costituzionalità, ma questo a parte: personalità che non sono certo sospettabili di particolare “buonismo”, e che affrontano la questione dal punto di vista concreto, dei “fatti”, dicono che è una legge sbagliata non tanto (o solo) il profilo etico, quanto da quello pratico, della gestione: ci dicono che è non solo un’inutile grida manzoniana, è perfino dannosa. Lo dice l’attuale capo della polizia Alessandro Pansa, persona riflessiva, prudente, cauta; lo dice il responsabile della Procura Nazionale Antimafia Franco Roberti; ce lo dicono i responsabili del tribunale di Caltanissetta, paralizzata da centinaia di procedimenti relativi ai clandestini (è l’obbligatorietà dell’azione penale, bellezza!), in una terra ad alta e ben più grave, pericolosa attività mafiosa. Bene, basta un qualunque Matteo Salvini che rotea e strabuzza gli occhi come un indemoniato, basta un Angelino Alfano la cui memorabile gestione del ministero dell’Interno verrà certamente ricordata negli anni a venire, ed ecco che il presidente del Consiglio, tremante e tremebondo subito blocca il  ministro della Giustizia Andrea Orlando (che colleziona l’ennesimo stop); e spunta fuori la “percezione”. La legge in sé, lo riconosce anche il presidente del Consiglio, è sbagliata, inutile, dannosa. Ma che penserà la pubblica opinione? Alla fine sono i voti quelli che contano. In Parlamento vanno benissimo quelli di Denis Verdini; nel paese anche quelli di forcaioli per indole, vocazione o ignoranza. Non è Maurizio Crozza che imita il presidente del Consiglio. È il presidente del Consiglio che sempre più indossa la maschera plasmata da Crozza.

Così per le questioni relative alla legge Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze. Abbiamo esempi da valutare con attenzione un po’ ovunque: nello stato americano del Colorado, la marijuana è ormai liberamente venduta e consumata non solo per ragioni terapeutiche, ma anche per motivi diciamo ludici; le casse dello Stato ne guadagnano; la criminalità organizzata ha una fonte di guadagno in meno; non sembra si siano verificati gli sfracelli temuti: non più, comunque, di quando era in vigore il regime proibizionista. Stesso discorso per quel che riguarda lo stato dell’Alaska. C’è un libro, “Zerozerozero” di Roberto Saviano, interessante da leggere, per la quantità di dati messi insieme, sulle dimensioni del narcotraffico, roba da vertigine per quel che riguarda interessi in gioco e denaro che si dispone per corrompere tutto e tutti. Frutto del regime illegale. Una mole impressionante di documentazione che non è possibile che Saviano abbia raccolto da solo. Anzi, è probabile che qualcuno, qualche ente specializzato quella documentazione gliel’abbia voluta dare; dal momento che nessuno fa nulla per nulla, la domanda è: perché? La possibile risposta potrebbe essere: dal momento che tutta quella documentazione “naturalmente” porta alla conclusione che l’unico antidoto a quello che accade è la legalizzazione, quel qualcuno che ha tutti quei documenti forse ha voluto fare una sorta di test, di sondaggio: e vedere se il libro, con quei dati e quella conclusione, avrebbe sollevato uno scandalo, una reazione (e che reazione). In Italia se ne è parlato poco. In Gran Bretagna, dove da poco è uscita l’edizione inglese, “The Guardian” ne ha fatta una entusiastica recensione, sostenendo che è ora di legalizzare; i lettori hanno reagito come se si trattasse della cosa più naturale del mondo; nessun Giovanardi o Gasparri d’oltre Manica ha levato la sua voce indignata…

In Italia, come abbiamo detto, se ne parla poco; ma appena si accenna al superamento della legge (peraltro con indubbi aspetti non costituzionali), ecco che il “dibbattito” non verte sull’opportunità o meno, sugli aspetti e i riflessi positivi o negativi; non si scende e rimane sul pratico e il conveniente. Scatta subito il fuoco di sbarramento costituito dalla “percezione”; che lo facciano i Gasparri, i Giovanardi, cosa volete che sia? È il pavloviano riflesso di quanti si ingegnano a dimostrare che Darwin non ha torto. Più grave che la questione della “percezione” sia agitata dal presidente del Consiglio. Al solito, come sempre, la “percezione”. Ed è per questo malinteso senso della “percezione” che si rinuncia a scelte che possono essere nell’immediato impopolari, a beneficio di altre che stabilmente si rivelano antipopolari.

Anche in questo caso, come per quello relativo ai “clandestini”, fiero e stentoreo si è levato il “niet” di Alfano. In nome della “percezione” non si deve modificare neppure la norma che prevede il carcere fino a un anno, e la multa da uno a 4 milioni di euro, per chi coltiva anche una sola piantina di cannabis, fosse pure a scopo terapeutico. E dire che l’auto-coltivazione per uso personale almeno sottrarrebbe quell’ “uno” al mercato clandestino monopolizzato da quelle mafie che si dice di voler combattere. I cambiamenti, dice il presidente del Consiglio, vanno fatti, ma con calma, tutti insieme, senza fretta. Soprattutto avendo cura di non pregiudicare la possibile “percezione”. Anni fa il paese ha manifestato in modo inequivoco la sua opinione attraverso un referendum: con quel voto, la maggioranza degli italiani si è espresso con nettezza per la depenalizzazione della droga “leggera”. Se lo ricorda il presidente del Consiglio? O in quel caso, la “percezione” non vale? Annotiamo bene queste parole fatte filtrare da palazzo Chigi: “Se fosse portata a termine così su due piedi, senza adeguata sensibilizzazione dell’opinione pubblica si rischierebbe di ingenerare il dubbio che si stia cedendo nella lotta agli stupefacenti”. Si rasserenino il presidente del Consiglio e i suoi consiglieri: per ingenerare non il dubbio, ma la certezza, che si stia cedendo (più propriamente: si sia già ceduto) nella lotta agli stupefacenti, basta lasciare le cose come sono.

Lo stop sulle questioni droga e immigrazione è dettato da evidente “paura”. Ma governare implica vincere le “paure”, non eluderle. Il presidente del Consiglio, come dicono a Roma, vuole a ogni costo fare il “piacione”. Chi vuole piacere a tutti, alla fine finisce con il non piacere a nessuno. A quarantadue anni, due anni dopo, cioè, l’età indicata per la possibile (e auspicata) rottamazione, capita. E non è solo una “percezione”.

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