Il viaggio di Caferri nel mondo dei nuovi italiani: “ Non chiamatemi straniero”

Il viaggio di  Caferri nel mondo dei  nuovi italiani: “ Non chiamatemi straniero”

Francesca Caferri, cronista de “la Repubblica” ed esperta di mondo arabo e fenomeni migratori, è una di quelle giornaliste che pratica attivamente un vecchio insegnamento di Enzo Biagi: “Il vero cronista deve andarsele a cercare”. E lei questo ha fatto, in un viaggio nell’Italia in profonda trasformazione (raccolto nel saggio “Non chiamatemi straniero”, recentemente pubblicato da Mondadori), stretta fra la crisi economica e la vitalità dei nuovi italiani, nati e cresciuti qui, benché i loro genitori vengano, talvolta, dall’altra parte del mondo, e desiderosi di mettersi in gioco, di essere protagonisti di questa società in movimento, di dire la loro in politica e nelle associazioni, nei luoghi di lavoro e nello sport, di impegnarsi in prima persona affinché il Parlamento approvi, finalmente, una seria legge sul diritto di cittadinanza e ponga fine all’assurda legislazione in base alla quale un ragazzo nato e cresciuto qui, tifoso di una delle nostre squadre di calcio e della nostra Nazionale, perfettamente integrato a scuola e nel contesto sociale in cui vive non gode degli stessi diritti di un suo coetaneo nato, magari a New York, da genitori italiani. Sono gli “italiani di domani” ma a pensarci bene, come spiega Francesca, sono soprattutto gli italiani di oggi.

Perché ha deciso di scrivere un saggio sugli “italiani di domani”?

Perché, in realtà, sono gli italiani di oggi: sono già qui, ma faticano a trovare una voce, quindi mi sembrava interessante e giusto dare voce a queste persone che compongono la nostra società tutti i giorni.

Dal libro si evince che essi non amano essere definiti né “nuovi italiani” né “seconde generazioni” né “generazione Balotelli” e il sindacalista Marcuzzo afferma che c’è stata sì un’accoglienza vera e positiva ma non un’effettiva accettazione degli immigrati. Perché questo?

Perché l’Italia non è abituata a vedersi come una società multietnica. Il nostro è sempre stato un Paese da cui le persone andavano via per cercare fortuna, non ci siamo ancora abituati all’idea che le persone vengano qui per trovare fortuna: è una questione di immagine del Paese, di come il Paese si pensa.

Il viaggio parte da Reggio Emilia, città nota in tutta Europa per i suoi livelli di accoglienza e integrazione. Qual è la caratteristica principale di Reggio Emilia? Cosa l’ha colpita maggiormente delle due ragazze, Aia e Anwal, che l’hanno accompagnata alla scoperta della città?

Hanno avuto entrambe una possibilità di interagire con la società. Anwal è nata a Reggio Emilia, Aia è arrivata quando aveva tredici anni ed entrambe hanno trovato un sistema che ha permesso loro di interagire con il resto della città, cosa che a Treviso, altra tappa del mio viaggio, non c’è. Reggio Emilia ha una grande tradizione di welfare e la declina sia nei confronti delle persone che ci sono nate sia nei confronti di chi c’è arrivato da poco.

A Treviso lei ha incontrato Tarek e Mohamed: il primo riconosciuto come italiano, il secondo no. Sta facendo passi avanti la città dopo la vittoria di Manildo su Gentilini, “sindaco-sceriffo” per eccellenza?

Sta facendo dei passi avanti importantissimi: il nuovo sindaco, ad esempio, ha concesso la cittadinanza simbolica a tutti i bambini che sono nati a Treviso e c’è un ragazzo di ventitre anni, Said Chaibi, di origine marocchina, eletto in consiglio comunale. Per l’ex città di Gentilini sono passi da gigante!

Nel libro, lei parla di una generazione “bilicante”, ossia in bilico. Di cosa si tratta di preciso?

È una generazione in bilico fra due mondi: quello che c’è a casa (dei genitori, delle tradizioni, della cucina, della lingua, dei colori, della religione del paese di origine) e dall’altra parte il mondo che c’è fuori, quello dell’Italia, dei suoi colori, dei suoi cibi e della sua lingua. Questi ragazzi, tutti i giorni, vanno avanti e indietro fra un mondo e l’altro.

Ciò che sorprende dei ragazzi presenti nel suo libro è la loro maturità e consapevolezza. Da cosa deriva e come potranno sfruttarla nel nostro Paese?

Deriva dal fatto che devono superare molti più ostacoli rispetto ai loro coetanei italiani, a livello di domande, di lingua, di razzismo latente, e tutto questo li porta a crescere più in fretta. Se utilizzano bene queste caratteristiche, si tratta di un grande dono.

Un altro aspetto sorprendente che emerge dal libro è che gli “italiani di domani” non chiedono più favori ma diritti, non parlano più solo di integrazione e sostegno ma di welfare. Quali sono, dunque, le principali differenze fra loro e i loro genitori?

I loro figli sono italiani: sono nati in Italia, pensano da italiani, vivono da italiani anche se hanno la pelle di colore diverso e, quindi, giustamente, vogliono avere accesso a tutti i diritti cui hanno accesso gli italiani. Li vogliono anche perché sia i loro genitori sia loro, se lavorano, pagano le tasse: sono, da questo punto di vista, parte della società e non si capisce bene perché non possano trarne i benefici che essa garantisce.

Si dice spesso che la società italiana sia più avanti della politica. Quale società italiana ha incontrato in questo viaggio?

Molto diversa, però devo dire che un tratto comune riguarda il fatto che la società italiana è molto più multietnica di quanto non ci racconti la televisione. Se uno va in una scuola, trova bambini “italiani doc”, come li chiamo io, accanto a bambini di seconda generazione: neri, gialli, marroni, come mi ha detto una bambina del “Celio Azzurro” che è un asilo di Roma. È una società, nei fatti, molto più aperta di come ci viene raccontata.

Qualche giorno fa, lei è stata ospite della trasmissione “Pane quotidiano” e uno dei suoi protagonisti, Amin, presente con lei in studio, ha citato una frase di Malcom X: “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”. Quante responsabilità ha il mondo dell’informazione nell’arretratezza del Paese?

Ha la responsabilità di non raccontare cose che invece sono normali, di meravigliarsi ancora di fronte a certi fenomeni. È come se scattasse una fotografia parziale e non totale: io la trovo una grossa responsabilità.

C’è un aneddoto del suo viaggio che non ha raccontato nel libro e che, invece, vorrebbe raccontare qui?

Ce ne sono tanti. Fra i più dolorosi, mi tornano in mente quelli dei ragazzi che non si sentono riconosciuti, non hanno voluto parlare e quindi non sono raccontati. L’altro aspetto è la voglia di raccontare di tanti di questi ragazzi: non ce n’è uno, c’è Anwal, c’è Albana, a modo suo c’è Marco Wong. La voglia di arrivare di questi ragazzi lascia un segno dentro di te.
In che momento hanno deciso di fidarsi di una giornalista per raccontare la loro storia? Come è successo?

Dipende dai casi, non c’è un modello che vada bene per tutti. Le vie che ho utilizzato maggiormente sono state gli amici reciproci che mi hanno messo in contatto con loro e hanno garantito per me, i contatti personali, magari attraverso un caffè che aiuta a rompere il ghiaccio, a trasmettere loro un senso di fiducia. Non c’è un come e un quando: ci vuole tempo perché loro si aprano.

Quali erano i principali motivi di diffidenza?

Il fatto che i giornalisti spesso non raccontano le cose come stanno e, a differenza mia, preferiscono il sensazionalismo al racconto della realtà. E poi c’era il mio essere italiana perché alcuni di coloro che si sono sottratti ritengono che tanto dagli “italiani doc” non ottieni mai niente: queste sono essenzialmente le cose che mi sono sentita dire.

I ragazzi descritti nel suo libro sono tutti molto attenti alle tematiche dell’integrazione ma anche alle questioni politiche in generale. Che opinione hanno in merito?

Un senso di grossa delusione, perché la politica ha promesso tante volte di introdurre lo Ius soli e non lo ha mai fatto. Tuttavia, oltre alla delusione, nutrono anche una grande voglia di impegnarsi in prima persona per cambiarla.

Ciò che mi colpisce ogni volta che intervisto un immigrato, che sia di prima o di seconda generazione, è proprio questa grande voglia di protagonismo sociale. L’ha riscontrato anche lei?

Certo, hanno voglia di arrivare, di affermarsi, di fare qualcosa di importante che è ciò che spesso manca ai cosiddetti “italiani-italiani”.

Il libro è dedicato a Leo e Luca, i suoi figli, che lei definisce “l’Italia che verrà”. Che Italia e quale modello sociale augura loro?

Un’Italia più aperta. Loro sono per metà italiani e per metà americani: io non apprezzo del tutto l’America ma apprezzo dell’America il fatto che lì la scala sociale funziona davvero, qualunque sia la tua religione, etnia o nazionalità. In Italia non è così e vorrei che in questo divenissimo un po’ più americani.
Beh, hanno avuto un percorso molto lungo e difficile anche loro prima di arrivare a Obama e ad una parziale integrazione dei neri!
Sicuramente, ma questo è il momento di imboccare anche noi quella strada. Come affermo nel libro, “ora o mai più”.

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