
Sarà perché ogni argomento, ormai, è buono per accendere polemiche pretestuose; sarà perché nelle redazioni di giornali, radio e televisioni l’ignoranza (da intendere in senso tecnico e letterale), ormai dilaga come un po’ ovunque; sarà anche perché gli stessi protagonisti del “caso” hanno tutto l’interesse ad alimentare mediaticamente la vicenda. Fatto è che la sentenza della Corte d’Assise di Massa che assolve Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente co-presidente e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, dall’accusa di aiuto nel suicidio di Davide Trentini (malato terminale di sclerosi multipla), è una “notizia”, che – si perdoni il bisticcio – non è “notizia”.
I fatti: Trentini arriva alla determinazione che a causa della sua malattia, la sua non è più vita che merita di essere vissuta; “sente” di essere arrivato al capolinea, intende – coscientemente – “scendere”; per lui, la “corsa” è finita. Non intende continuare a soffrire inutilmente come soffre. L’unica via di scampo che vede è farla finita. Si rivolge dunque all’associazione Coscioni; Welby e Cappato, come hanno già fatto con Fabiano Antoniani (Dj Fabo), lo accompagnano in una clinica in Svizzera. Sanno perfettamente che per Trentini sarà un viaggio di sola andata. Ne sono lucidamente consapevoli. È l’aprile del 2017.
Tornati in Italia, Welby e Cappato si auto-denunciano ai carabinieri; lo scopo è quello di creare il “caso”. Si arriva così a sentenza: il pubblico ministero chiede il minimo della pena (tre anni e quattro mesi). Ritiene che i due dirigenti dell’associazione Coscioni siano animati da comportamento meritevole “di alcune attenuanti”, ovvero: “ispirato da nobili intenti”. I giudici stabiliscono che il fatto non sussiste. Non c’è ombra di reato nell’aver “accompagnato” Trentini oltre-confine, in quella clinica dove ha posto la parola fine alle sue sofferenze. Perché si parla di “notizia” che al tempo stesso è “non notizia”? E perché si parla di “ignoranza”?
Una analoga vicenda si è risolta allo stesso modo (ma con molto minor clamore), già nel gennaio 2014. Il caso di una signora, Oriella Cazzarello; e di un signore, Angelo Tedde, che l’ha condotta in Svizzera, consapevole che anche quello sarebbe stato, per la signora Cazzarello, un viaggio di sola andata. Soccorre Il Corriere Veneto del 14 ottobre 2015 che riassume così la storia: Vicenza. Assolto perché il fatto non sussiste. Così ha sentenziato, nel pomeriggio di mercoledì, il giudice Massimo Gerace nei confronti di Angelo Tedde, 60enne ligure di Chiavari, che era finito a processo per aver portato a morire l’amica Oriella Cazzanello, 85enne di Arzignano, per averla accompagnata – nel gennaio 2014 – in una clinica in Svizzera, in cui le era stata praticata l’eutanasia. Il pubblico ministero Gianni Pipeschi aveva chiesto tre anni e quattro mesi per l’ex portiere d’albergo accusato di aver istigato al suicidio la benestante vicentina, che gli ha lasciato una bella fetta dell’eredità, circa 800 mila euro. “Oriella era convinta, non ha voluto sentire ragione, non c’era modo di farla rinunciare all’eutanasia, ci ho provato fino all’ultimo” ha sempre sostenuto Angelo Tedde, che l’aveva già fatta desistere una volta. Oggi, al termine del processo con rito abbreviato, dopo circa due ore di camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la sentenza di assoluzione piena dell’uomo...
Vero che in Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, il precedente non costituisce “legge”; però in qualche modo “pesa”. Forse i giudici di Massa non erano a conoscenza della sentenza del tribunale di Vicenza; certamente hanno tenuto conto della sentenza del tribunale di Milano e del pronunciamento della Corte Costituzionale a cui si era rivolto per districare la matassa. In quell’occasione i cosiddetti “giudici delle leggi” stabiliscono che in determinate condizioni non si applicano le sanzioni previste dall’articolo 580 del Codice Penale; in particolare non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio” autonomamente e liberamente formatosi, “di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Semmai, due sono le riflessioni che si dovrebbero fare (e agire di conseguenza): il caso di Massa risale al 2017; la sentenza arriva nel luglio 2020. Tre anni, per un caso eticamente lacerante, ma giuridicamente poco complicato. La seconda considerazione: la Corte Costituzionale, nel suo verdetto, esplicitamente richiama il Parlamento alle sue responsabilità: “In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. La Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018…”.
Si tratta di questioni che riguardano la vita e la morte, la dignità e il rispetto di cui ognuno di noi ha diritto: questioni universali, che piaccia o no, riguardano tutti, nessuno escluso. Eppure, la “politica” non le inserisce nella sua agenda; anzi: con cura le evita, elude; sorda ai richiami delle coscienze e della stessa Corte Costituzionale. Non se ne parla, non se ne discute, non ci si confronta, non ci si scontra. Inutile (e ipocrita) poi la lamentazione che i giudici “invadono” campi non loro. Se lo fanno è perché li si lascia fare, non si provvede come si dovrebbe e potrebbe. Si dovrebbe partire dall’articolo 32 della Costituzione (articolo, si badi, su cui molto ha riflettuto e lavorato un costituente che si chiamava Aldo Moro): La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Ecco: quel “nessuno può essere obbligato…”. Un articolo che perentoriamente, in modo cristallino e inequivocabile, nega l’accanimento terapeutico non desiderato, non voluto. Su questa base si arriva al dovere di assicurare una conoscenza, un “sapere” che per qualche ragione (meschina, “interessata”?) viene pervicacemente negata. In molti casi, compreso Dj Fabo e Trentini, non si è “obbligati” ad espatriare in Svizzera. C’è per esempio il caso di Marina Ripa di Meana: esuberante, di tutto la si può accusare, ma non di non aver amato la vita. Eppure, questa donna, a un certo punto non riesce più a tollerare le atrocità fisiche che il tumore le infligge, chiede solo di morire in pace. Per questo programma di andare anche lei in qualche clinica svizzera, per un “sollievo” definitivo. Non sapeva che poteva evitare quel viaggio. Il testo che segue, affidato a Maria Antonietta Farina Coscioni, è illuminante: …le mie condizioni di salute sono precipitate. Il respiro, la parola, il mangiare, alzarmi: tutto, ormai, mi è difficile, mi procura dolore insopportabile: il tumore ormai si è impossessato del mio corpo. Ma non della mia mente, della mia coscienza… Ho chiamato Maria Antonietta Farina Coscioni, persona di cui mi fido e stimo per la sua storia personale, per comunicarle che il momento della fine è davvero giunto. Le ho chiesto di parlarle, lei è venuta. Le ho manifestato l’idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda. Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via. Ora so che non devo andare in Svizzera. Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera, come io credevo di dover fare. Il passaggio chiave del testo è questo: “Non sapevo, non conoscevo questa via… che si può percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda”.
In breve: anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze: “Fallo sapere, fatelo sapere”, l’estremo appello. Un richiamo perché si faccia sapere, conoscere. Quanti sono i sofferenti giunti allo stremo che ignorano che è consentita, possibile, un’alternativa “dolce” al suicidio violento o al viaggio senza ritorno in Svizzera? Scarse e scarne le informazioni, nessuna campagna per garantire adeguata conoscenza; i mezzi di comunicazione sono assenti, rinunciano a svolgere il ruolo di informazione che dovrebbe essere elemento costitutivo della loro esistenza. Anni fa il primario del cattolicissimo ospedale romano “Gemelli”, professor Mauro Sabatelli, ha spiegato perché non ci sarebbe nemmeno bisogno di una nuova legge per rispettare la volontà dei malati che chiedono il distacco del respiratore sotto sedazione. Il problema, piuttosto, è che in molte strutture sanitarie si impongono trattamenti sanitari contro le scelte del malato, contro la Costituzione, contro le buone pratiche mediche e persino contro la dottrina cattolica. Il rifiuto delle cure, spiega Sabatelli, non è eutanasia ma una questione di buona prassi medica. Già oggi la legge, la Costituzione e il codice deontologico lo consentono. Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana. Solo con questa sicurezza il 30 per cento accetta oggi la tracheotomia; il malato valuta e sceglie se la ventilazione meccanica è trattamento proporzionato alla propria condizione e quindi non lesivo della propria dignità di vita. Chi accetta ha diritto ad essere assistito a casa, aiutato dalle istituzioni. Chi rifiuta ha diritto a morire con dignità. Al “Gemelli” studiano un piano di cura coi malati, ascoltano i voleri di chi vive con un tubo in gola, un sondino per nutrirsi. Li seguono nel cammino, sino all’ultimo. Li “accompagnano” sino alla fine. Si assicurano che siano seguite la loro volontà e non soffrano. Si addormentano, e tolgono il respiratore. Lo hanno fatto a pazienti che, stanchi di vivere immobili, attaccati alle macchine, hanno detto ‘basta’. Sono stati sedati profondamente e solo a quel punto spenta la macchina che soffiava aria nei polmoni. Sono morti senza dolore, dormendo.
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