Pensioni in Italia: importo medio a 22.331 euro, ma il divario uomo–donna resta alto

L’ultimo quadro sulle pensioni fotografa un importo medio annuo pari a 22.331 euro lordi. Dietro la media, però, persiste un differenziale marcato: l’assegno degli uomini è circa il 34% più alto di quello delle donne. Ecco perché accade, quali categorie pesano di più e cosa potrebbe ridurre il gap nei prossimi anni.
Numeri chiave: quanto prendiamo, chi prende di più e dove si allarga il divario
L’importo medio annuo delle pensioni italiane, pari a circa 22.331 euro lordi, nasconde una forte eterogeneità per genere, area geografica e tipologia di prestazione. Gli uomini percepiscono assegni medi superiori di circa il 34% rispetto alle donne, un disallineamento che riflette carriere contributive più lunghe e retribuzioni storicamente più alte nel lavoro maschile, oltre a una diversa distribuzione tra pensioni di vecchiaia, anticipate, di anzianità, invalidità e reversibilità.
A livello di tipologie, le pensioni dirette (vecchiaia/anticipate) mostrano importi più elevati rispetto alle indirette (reversibilità), dove la platea è a prevalenza femminile e l’assegno risente delle percentuali di trasformazione previste dalla legge. Anche il settore lavorativo incide: chi proviene dal lavoro dipendente privato tende ad avere importi medi inferiori rispetto al pubblico impiego (per carriere più lineari e scatti di anzianità) e ad alcune pensioni del lavoro autonomo con lunghe anzianità contributive.
Il fattore territorio completa il quadro: nelle regioni del Nord gli assegni medi risultano più alti, coerentemente con salari storicamente maggiori e carriere più continue; al Centro i valori si collocano su livelli intermedi; nel Mezzogiorno pesano maggiormente carriere discontinue e interruzioni lavorative, con effetti diretti sul montante contributivo e quindi sull’importo della pensione.

Perché esiste il gap : carriere, contributi e nuove regole
Le ragioni del divario di genere sono strutturali. Primo: differenze nelle retribuzioni medie lungo la vita lavorativa (gender pay gap), che si traducono in minori versamenti contributivi anno dopo anno. Secondo: carriere intermittenti delle donne, spesso legate a maternità, cura familiare e part-time, che interrompono l’accumulo contributivo e abbassano il montante. Terzo: una maggiore presenza femminile in settori a basso salario e con minori progressioni di carriera. Quarto: una quota non trascurabile di prestazioni di reversibilità, per loro natura inferiori ai trattamenti diretti del dante causa.
Per ridurre il gap servono leve combinate. Sul lato del lavoro: promuovere occupazione femminile stabile, sostegno alla conciliazione (nidi, congedi paritari), contrasto al part-time involontario e valorizzazione delle carriere STEM, mediamente più retribuite. Sul versante previdenziale: incentivi al riscatto di periodi non coperti (laurea, maternità non retribuite), riconoscimenti contributivi selettivi per cura e assistenza, maggiore educazione finanziaria per attivare in tempo piani integrativi (fondi negoziali o aperti) a colmare i “vuoti”.
Conta anche l’orizzonte delle regole. La transizione al sistema contributivo puro rende l’importo dell’assegno più aderente alla storia retributiva e contributiva: ciò premia carriere lunghe e continue e penalizza discontinuità e bassi salari. Di conseguenza, ogni intervento che riduca differenziali salariali e interruzioni lavorative oggi, avrà un effetto misurabile sul divario pensionistico di domani.
Un ulteriore elemento è la longevità: le donne vivono in media di più e trascorrono più anni in pensione, ma con assegni mediamente più bassi. Questo rende cruciale il tema della sostenibilità individuale: pianificare prima (aderendo a forme di previdenza complementare, anche con piccoli versamenti costanti) e verificare periodicamente la propria posizione contributiva per evitare sorprese alla finestra di uscita.
Implicazioni pratiche per famiglie e imprese. Per i lavoratori, tenere sotto controllo estratto conto contributivo, valutare il riscatto di periodi scoperti e stimare l’assegno futuro con i simulatori aiuta decisioni consapevoli su età di uscita e accumulo integrativo. Per le aziende, politiche retributive trasparenti, parità di avanzamento e strumenti di welfare (contributi che alimentano la previdenza complementare, match aziendale) possono ridurre il gap nel lungo periodo, migliorando anche engagement e retention.
Guardando avanti, la fotografia di un assegno medio pari a 22.331 euro e di un gap del 34% è insieme traguardo e promemoria: l’invecchiamento demografico chiede sistemi previdenziali solidi, ma anche percorsi lavorativi più equi. La media non deve nascondere le differenze: intervenire su salari, continuità occupazionale e riconoscimenti contributivi è la strada per trasformare un grafico in un cambiamento reale.
Le pensioni italiane mostrano una media 23k lordi annui, ma con una forbice di genere ancora ampia. Il motivo è scritto nelle storie lavorative: retribuzioni, continuità, ruoli e tempi di cura. La soluzione passa da lavoro, politiche familiari e previdenza integrativa: le tre leve che, azionate insieme, possono allineare il percorso contributivo e ridurre un divario che non è solo statistico, ma incide sulla qualità della vita nella terza età.
