
Ce ne vorrebbero molte di più di ragazze come Karoline Kan, nata in un piccolo paese vicino Tianjin tre mesi prima del massacro di piazza Tienanmen e autrice di un diario intitolato “Sotto cieli rossi”, in cui racconta le vicende meno note, e per noi occidentali spesso insondabili, di una Cina al bivio fra modernità e stretta autoritaria. Diciamo che la Cina non è il paese migliore per chi abbia dei sogni e insegua la libertà. E diciamo anche che la tragedia del Coronavirus ne ha messo in evidenza i non pochi limiti e le troppe bugie, al pari di un’onnipotenza governativa che mina le fondamenta stesse della democrazia e rende impossibile qualsivoglia dibattito pubblico.
Karoline ci restituisce tutto questo e molto altro in un affresco che non è solo il racconto delle emozioni e delle sensazioni di una millennial, una secondogenita nata grazie alla tenacia di sua madre nello sfidare la rigida politica del figlio unico, ma anche un lucido sguardo su una nazione che non ha ancora fatto i conti con se stessa e con le proprie contraddizioni. Non c’è dubbio, infatti, che il Dragone sia la potenza del Ventunesimo secolo, esempio e punto di riferimento per quanti sognano mercati inesplorati e vogliono competere in un contesto che garantisce la massima affidabilità. Non c’è dubbio neanche, però, che il modello cinese sia pessimo e tutt’altro che da imitare. A tal proposito, mi hanno destato impressione, nei giorni più atroci della pandemia, gli opinionisti e i commentatori che avevano elevato Wuhan a faro per l’Occidente, come se noi potessimo accettare misure così drastiche, una costante violazione dei diritti umani e addirittura la pena di morte per chi viola le regole imposte.
Karoline Kan ha avuto il merito di svelare l’ipocrisia di cui Pechino, e Xi Jinping in particolare, si pasce e di rivelarci l’altro volto di un paese in straordinaria ascesa ma anche costretto a confrontarsi con l’arretratezza delle proprie campagne, con condizioni di vita e di lavoro in molti casi insostenibili e con le aspirazioni di libertà di una generazione, quella di Karoline ma anche quelle successive, cui non basta più il benessere. Come abbiamo detto già in altre occasioni, se si verificherà un nuovo Sessantotto, non avverrà nella vecchia e ormai avvizzita Europa ma in Africa e in Asia, là dove i ragazzi stanno alzando la testa e sono tanti, perché le rivoluzioni non possono mai camminare con il bastone: hanno bisogno di gambe forti e scattanti, di una mente pronta e di uno sguardo al futuro che sia il più ampio possibile. Per rivendicare le rose, oltre al pane, occorrono storicamente i vent’anni, e Karoline si pone proprio l’obiettivo di farci comprendere la globalità del pensiero che accomuna i giovani di tutto il mondo, a cominciare da quelli degli stati in ascesa.
Quello di Karoline è uno spazio democratico in un contesto che ne avverte disperatamente il bisogno. Diciamo che il suo libro apre un varco, indica una strada e pone degli interrogativi. Sta a noi che lo leggiamo, in ogni angolo del mondo, trarre le debite conclusioni e sforzarci di comprendere come sarà il domani, cosa avverrà nei prossimi anni e quanto e come cambierà la società in seguito alla tragedia che ha sconvolto in questi mesi l’intero pianeta. Scavare a fondo, anche grazie al bel confronto generazionale con zio Lishui, come ha fatto Karoline, è un ottimo punto di partenza. È il segnale che qualcosa si muove, anche in quel Paese enorme e controverso con cui dobbiamo fare i conti e al quale non possiamo continuare a guardare con sufficienza o, peggio ancora, con aria di superiorità. Perché la Cina ormai non è vicina, come sosteneva Bellocchio in un celebre film: è fra noi e non è detto che sia un male, benché io nutra ancora un profonda e motivata sfiducia nei suoi metodi, nelle sue istituzioni e, più che mai, nelle idee di chi ne decide le sorti.
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