
Il 1960, per l’Italia, è stato un anno spartiacque. Diciamo che è stato un anno in cui abbiamo vissuto due volte, due esperienze radicalmente diverse l’una dall’altra, con due direttrici che ci hanno condotto verso orizzonti assolutamente inconciliabili. Come hanno ben spiegato in un saggio di recente pubblicazione gli storici Franzinelli e Giacone, nel ’60 si rischiò davvero la guerra civile. Accadde, infatti, che il governo guidato da un esponente della destra democristiana, Fernando Tambroni, ottenesse l’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano, erede di quel partito fascista che, in base alla dodicesima disposizione transitoria e finale, non si sarebbe dovuto poter ricostruire in alcuna forma. E accadde che un ex partigiano, il ministro degli Interni Giuseppe Spataro, non trovasse di meglio che concedere la città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza, capace di liberarsi da sola e di esprimere una tra le forme più avanzate di progressismo e socialismo riformista, per un congresso dell’MSI. Successe l’inferno.
A cavallo tra la fine di giugno e l’inizio di luglio di quell’anno, i camalli di Genova, gli operai di Reggio Emilia e una sinistra diffusa, combattiva e in grado di fare fronte comune, fosse essa comunista, socialista o anche cattolica, scese in piazza manifestando massicciamente contro questo insulto alla democrazia. Dal canto suo, Pertini affermò, il 28 giugno a Genova, che essere antifascisti significava impedire ai fascisti di manifestare, tornando sulle barricate dopo aver guidato, nel ’43, la battaglia di Porta San Paolo contro l’oppressore nazista e dopo aver contribuito in maniera decisiva alla liberazione e alla ricostruzione dell’Italia. Nel Paese tirava un’aria da colpo di Stato. Caddero dieci manifestanti: cinque a Genova e altrettanti a Reggio Emilia, il 7 luglio, e al loro sacrificio è dedicata una canzone bellissima intitolata “Per i morti di Reggio Emilia”. È bene ricordare i loro nomi: Marino Serri, Emilio Reverberi, Lauro Farioli, Afro Tondelli e il più giovane di tutti, Ovidio Franchi, caduto a soli diciannove anni. Erano ex partigiani, combattenti democratici e anti-fascisti, uomini coraggiosi nel rivendicare e difendere le proprie idee, al punto di sacrificare finanche la vita in nome di un ideale superiore. Pochi giorni dopo apparve su Epoca un bellissimo editoriale di Enzo Biagi intitolato “Dieci poveri, inutili morti”, in cui il direttore del settimanale stigmatizzava ipocrisie, omissioni, reticenze e prese in giro, accusando la mala politica di essere la vera responsabile di quell’oscenità. Tambroni, così racconta Biagi e non abbiamo motivo di mettere in dubbio la sua versione, ne pretese il licenziamento ad opera di Mondadori.
Fortuna volle che quel governo fosse profondamente inviso non solo alla sinistra diffusa nel Paese ma anche ai vertici di partiti all’epoca fortissimi, per non parlare del vasto universo culturale che si riconosceva in un’idea assolutamente incompatibile con il coinvolgimento dei missini al governo. Era la visione morotea e nenniana del centro-sinistra, favorita dal distaccamento dei socialisti dal PCI in seguito ai fatti d’Ungheria del ’56 e dal cambio di passo della DC in seguito all’avvicendamento di Fanfani con Moro alla guida del partito. Con la consueta lungimiranza, lo statista pugliese aveva compreso l’esaurimento della stagione centrista e il bisogno di aprire porte e finestre, di allargare le maglie della democrazia, forzando il rigido blocco di Jalta e i suoi equilibri difficilmente sostenibili, e di dar vita a una stagione di governo all’insegna delle riforme sociali e dell’emersione di nuove soggettività. Fu proprio Fanfani a incaricarsi di traghettare la DC nella fase post-Tambroni mentre si compiva il complesso lavoro di tessitura, interna e internazionale, che, approfittando della presenza dell’amministrazione Kennedy e della sua sfida all’insegna della Nuova frontiera, avrebbe condotto i democristiani al congresso di Napoli e i socialisti a un’analisi approfondita delle classi dirigenti nel loro complesso, anche grazie al prezioso lavoro della rivista Nord e Sud, diretta da Francesco Compagna, alla vigilia di una svolta storica di cui si comprendeva tutto il peso e l’importanza.
Fra il ’60 e il ’63, negli anni in cui l’Africa viveva la stagione della decolonizzazione e nuovi equilibri andavano costituendosi a livello globale, l’Italia visse in bilico fra regressione e modernità, riuscendo nell’impresa di imboccare la strada della speranza nonostante le enormi pressioni in senso contrario. L’estate del 1960 costituì, come detto, uno spartiacque, una cesura definitiva rispetto al passato, possiamo dire la seconda conclusione della guerra e l’avvio di quel tempo felice in cui una nuova generazione riuscì a farsi strada e a portare avanti proposte innovative e valori che andavano affermandosi nella società. Tambroni fu l’ultimo esponente dell’ambiguità nei confronti del retaggio fascista. Fanfani, e soprattutto Moro, al contrario, presero una posizione netta e intransigente nei confronti del regime, suffragando l’ottima intuizione dell’incontro fra democristiani e socialisti con un’azione di governo innovativa che migliorò non poco le condizioni complessive del Paese.
1960: sessant’anni fa. Quei “dieci poveri, inutili morti” non son caduti invano.
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