
Il primo è la riforma del titolo V della Costituzione del 2001.
La frettolosa ridefinizione delle attribuzioni tra i vari livelli istituzionali – attuata poco prima delle elezioni politiche per timore della Lega Nord di Bossi – è avvenuta in modo irrazionale, come dimostra l’incremento della burocrazia e il lievitare del contenzioso interno alla pubblica amministrazione, causato per lo più dal lungo elenco delle materie a competenza concomitante.
Nella sanità il trasferimento delle competenze alle Regioni ha trasformato il S.S.N. in un sistema articolato regionalmente.
Per ridurre il logico rischio della frammentazione e illudere sulla permanenza della universalità del diritto sono stati inventati i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), come se la certificazione dell’esistenza di un servizio in una struttura sanitaria potesse prescindere dai tempi di erogazione e soprattutto dalla qualità di essa.
Il fallimento sta davanti agli occhi di tutti. L’esistenza di una pluralità di sistemi regionali, cui si aggiunge l’articolazione interna ad essi, non solo lede di fatto il principio del diritto essenziale universalmente garantito, ma determina una trasmigrazione interna al paese perchè il cittadino cerca, giustamente, una prestazione sanitaria qualitativamente valida.
Su un altro piano ugualmente incisiva è la contrattazione sociale territoriale e aziendale.
Negli ultimi anni migliaia di accordi sindacali e qualche contratto nazionale prevedono questa contrattazione in materia di sanità, senza porre alcun limite. Eppure la rapidità della sua estensione avrebbe dovuto insospettire.
E’ vero che sono diversi a trarne vantaggio:
- gli imprenditori perché il costo da loro sostenuto per le prestazioni sanitarie offerte con la contrattazione, col risparmio contributivo e le agevolazioni previste, risulta dimezzato rispetto ad un aumento salariale. Senza contare eventuali riconoscimenti economici che potrebbero aggiungersi da parte della assicurazione prescelta;
- i lavoratori perché hanno accesso senza costo a servizi sanitari di buon livello e senza le lunghe attese del sistema pubblico;
- gli investitori privati perché attraverso gli accordi realizzano senza grandi spese di marketing una interessante crescita della clientela e tassi di profitto vantaggiosi;
- i sindacati perché incapaci di sviluppare la contrattazione sugli aspetti più qualificanti della condizione lavorativa a fronte dei rapidi cambiamenti che caratterizzano il mondo del lavoro odierno, trovano così un residuo consenso dei loro rappresentati.
Lo si direbbe un orizzonte idilliaco, in effetti così viene presentato, peccato che ne conseguano diverse controindicazioni:
- viene distrutto il modello di welfare di cittadinanza e si reintroduce quello lavoristico, con una duplice condizione di privilegio: da un lato tra lavoratori e cittadini e dall’altro tra lavoratori stessi, cioè tra coloro che hanno la contrattazione sociale e coloro, ben più numerosi, che non ce l’hanno. Negli anni ’70 ci sono state assemblee sindacali difficili – ne ho fatte io stesso in varie sedi e stabilimenti Montedison e Snia – che avevano all’ordine del giorno lo smantellamento delle “mutue aziendali” molte delle quali erano efficienti e ben dirette. La scelta strategica perseguita era quella di passare da un diritto legato al lavoro ad un diritto di cittadinanza, come significativa evoluzione nell’attuazione dei principi costituzionali sui diritti essenziali universali;
- si favorisce l’affermarsi della sanità privata sia per l’espansione dei soggetti coinvolti, sia per l’afflusso di risorse economiche derivanti dal numero degli assicurati e soprattutto dall’alta redditività dei settori sanitari selezionati. Al contrario viene penalizzata la sanità pubblica perché riceve minori entrate, e perché rimangono a suo carico settori sanitari particolarmente onerosi. Gliene deriva peraltro una valutazione sempre più negativa da parte dei cittadini:
- il sindacato registra un ulteriore contraddizione: abdica ad un ruolo di protagonista del cambiamento del modello neoliberista, diviene co-attuatore di una delle disuguaglianze più pesanti, abdica alla sua precipua funzione di orientamento culturale dei lavoratori;
- risulta infine mascherato e giustificato il livello inadeguato delle retribuzioni, il più basso fra i 10 paesi più industrializzati, con conseguenze negative sullo sviluppo economico oltre che sulle disuguaglianze sociali interne; anomalia quest’ultima evidenziata perfino da Draghi e Calenda.
QUALCHE PROPOSTA
Altrettanto sommariamente vorrei provare ad avanzare anche qualche proposta nell’intento di recuperare quella che ritengo una corretta politica sanitaria.
Anche senza la lezione del Covid 19 sono convinto che si debba con urgenza tornare allo spirito della riforma del 1978, cioè ad una sanità pubblica e nazionale. Significherebbe riconsiderare la salute nità come diritto costituzionale fondamentale e pertanto universale.
Occorre di conseguenza cancellare la sciagurata riforma del titolo V e la conseguente autonoma strutturazione sanitaria regionale.
Occorre impedire qualsiasi riforma, anche mitigata, che introduca l’autonomia differenziata delle regioni. Fra l’altro, quasi un contrappasso dantesco, le regioni più colpite dalla pandemia e che più hanno dato a vedere l’inadeguatezza del loro intervento sono proprio le tre che ne avevano avanzato richiesta.
Occorre recuperare l’essenzalità e il vincolo della programmazione nazionale che, elaborata col coinvolgimento attivo delle regioni, preveda piani di medio-lungo periodo, articolati per programmi annuali a scorrimento. Questa programmazione dovrebbe saper porre un limite al processo di privatizzazione sia delineando il peso di quella convenzionata, sia annullando tutte le agevolazioni per quella non convenzionata, sia infine ponendo condizioni vincolanti al libero esercizio professionale concesso ai medici dipendenti.
Occorre ancora un progetto organico d’investimenti finalizzati all’ ammodernamento di vecchie strutture o alla costruzione di nuove, tenedo conto di criteri di duttilità capaci di fronteggiare l’insorgere di esigenze eccezionali. Analogo intervento sistematico di aggiornamento su tutto il territorio dovrebbe riguardare la dotazione di attrezzature, soprattutto diagnostiche. Risorse per investimenti e per trasferimenti tecnologici sulla prevenzione potrebbero essere trovate anche utilizzando gli attivi dell’INAIL.
I LEA dovrebbero essere abbandonati predisponendo invece nuovi indici imperniati sull’analisi e misurazione della qualità degli interventi e della loro tempestività. Il monitoraggio dovrebbe essere affidato ad una specifica Commissione di esperti.
Occorre ancora realizzare un aggiornamento tecnologico che colleghi le varie banche dati che potrebbero fornire informazioni collaterali (condizioni di lavoro, ambientali, ecc) utili ai fini sanitari in un sistema informatico nazionale con accesso differenziato per operatori sanitari, medici di famiglia, cittadini.
Occorre una radicale modifica del sistema delle ASL sul piano della strutturazione e della governance superando l’attuale concezione aziendalistica per sostituirvi quella di una realtà sia funzionale che erogatrice di servizi essenziali di qualità.
Occorre un piano di assunzioni che recuperi un idoneo rapporto tra personale e bisogni dei cittadini. Il personale, e tra questi in particolare i medici di famiglia, dovrebbe essere costantemente e obbligatoriamente aggiornato.
E’ inoltre necessaria l’eliminazione di tutte le agevolazioni concesse alla contrattazione sociale territoriale e aziendale di natura sanitaria.
Sono ovviamente proposte indicate di getto che potrebbero acquistare più senso se riconsiderate all’interno di un confronto generale sulla nostra sanità , di cui purtroppo negli ultimi 25 anni ho sentito una grande mancanza. Come siamo costretti a vedere oggi è assolutamente urgente ripensare e riprogettare il S.S.N. per adeguarlo al mutare della realtà socio-economica e alle enormi disponibilità offerte da un corretto uso della ricerca e delle tecnologie, le quali oggi consentono obiettivi un tempo impraticabili.
Sintetizzo la posizione di una recente intervista al prof. Gava: “la medicina moderna, senza distinzione preventiva o curativa, deve ricercare sempre la personalizzazione, perché va adattata alle soggettività fisiopatologiche, nutrizionali, familiari, sociali e ambientali di ogni individuo. La ricerca medica più moderna va in questa direzione, punta alla personalizzazione della terapia e cerca i farmaci più efficaci per la singola persona, anche in base ai suoi caratteri genomici […] abbiamo inoltre bisogno di una medicina integrata da rendere obbligatoria data la complessità delle patologie attuali che stanno diventando sempre più croniche curate con farmaci chimici, che in realtà sarebbero adatti solo per la cura delle patologie acute. In questo modo si potrebbero ridurre drasticamente l’uso e l’abuso dei farmaci (che sono la terza causa di morte nei Paesi industrializzati!) e si potrebbe anche risparmiare molto denaro pubblico . […] infine abbiamo bisogno di una medicina umanizzata, perché l’uomo è dotato, oltre che di corpo, anche di psiche e spirito. Il medico deve valorizzare tutto questo e considerarlo sia come possibile causa di patologia, sia come porta d’entrata per impostare una terapia che sappia agire a livello psichico e spirituale”
Quanto siamo lontani da questa visione oggi possibile. E questa esigenza di riprogettazione ex novo non riguarda solo la sanità ma tutto il nostro welfare, cioè l’intero sistema di sicurezza sociale che va interamente ripensato adottando analoghi criteri di esame di una realtà profondamente cambiata e quindi di individuazione dei bisogni e delle domande dei cittadini, nonché utilizzando le enormi potenzialità offerte dalle innovazioni tecnologiche. Dovrebbe essere il nucleo fondamentale del programma di una autentica forza di sinistra; sarebbe una sfida vincente che finalmente ridarebbe senso alla politica e al suo rapporto vitale con le persone e la collettività.
- Paolo Lucchesi. Riflessioni sulla sanità (parte terza) - 28 Giugno 2020
- Paolo Lucchesi. Riflessioni sulla Sanità (parte seconda) - 22 Giugno 2020
- Paolo Lucchesi. Riflessioni sulla sanità (parte prima) - 21 Giugno 2020