
La scatta meccanicamente, quasi per caso, Letizia Battaglia; ed è una fotografia che fa epoca; e ancora oggi, quando viene esposta assieme a tante altre che “raccontano” la ferocia della Cosa Nostra, si viene afferrati da un senso di vertigine e commozione. Letizia è la prima ad arrivare in via della Libertà a Palermo, dove hanno appena ucciso Piersanti Mattarella. Lei e il suo compagno, il fotografo Franco Zecchin. “Avevamo fatto una passeggiata, e vediamo un’automobile quasi appoggiata a un cancello. Sergio Mattarella tiene abbracciato il corpo del fratello, lo sta tirando fuori. Avevamo le macchine fotografiche in mano, pensavo si trattasse di un piccolo incidente, ma quella volta ci siamo fermati, e ho scattato. Non ho riconosciuto subito il presidente della regione Piersanti Mattarella…”. Sul posto, quasi contemporaneamente, accorre un giovane magistrato: si chiama Pietro Grasso. Ma torniamo alla foto, al racconto di Letizia: “E’ una foto drammatica, come ogni tanto capita di scattare per caso, per intuito. Dentro c’è di tutto: la moglie, la figlia, il fratello fuori dall’auto, e Sergio chinato su Piersanti…”. Quello scatto è storia: “racconta” cosa è accaduto la mattina di quel 6 gennaio di quarant’anni fa. Si festeggia l’Epifania. Piersanti sta andando a messa, in compagnia della moglie, dei due figli e della suocera. Entra nella sua Fiat 132 non blindata, e senza la scorta: quel giorno, domenica, Epifania, ha deciso di rinunciare; che quei poliziotti se ne stiano a casa, in famigl L’azione è fulminea. Un giovane uomo, viso scoperto, si avvicina all’automobile; in mano una Colt 38 Special, partono quattro colpi; arretra…un ripensamento, torna indietro; altri quattro colpi, fugge…
Piersanti Mattarella presidente della regione siciliana muore così. Ennesimo delitto eccellente di mafia? Sicuro. Senza il consenso della Cosa Nostra, non si uccide, a Palermo, così platealmente, un personaggio come Mattarella. Però, la domanda finora rimasta senza risposta, l’interrogativo che forse non è solo un interrogativo, il sospetto che non è solo un sospetto: solo Cosa Nostra? Giovanni Falcone, per primo ipotizza una sorta di alleanza tra mafia e neofascisti; e che il killer dagli occhi di ghiaccio, come lo descrive la vedova Mattarella (finora rimasto senza nome), possa essere uno venuto da fuori. Dopo la fotografia di Letizia Battaglia, altre immagini: quelle trasmesse dalla RAI, l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo. La sua è una denuncia precisa: “Una cosa sembra emergere sicura, ed è l’impossibilità che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa. Ci devono essere anche altre forze occulte, esterni agli ambiti, pur tanto agitati della nostra isola”. Che ne sa, il cardinale, perché si esprime così, e in una occasione così solenne? Forse è solo il frutto di un’intuizione, di un ragionamento di un siciliano nato a Villafranca Sicula, e figlio di un maresciallo dei carabinieri. Lo stesso Pappalardo due anni dopo, durante un’altra omelia, quella per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, cita una famosa frase di Tito Livio: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur…”, sferzante atto d’accusa contro l’inerzia dello Stato nella sanguinosa stagione degli omicidi eccellenti in Sicilia. Mentre il cardinale Pappalardo parla delle “altre forze occulte…”, l’operatore sposta l’obiettivo della telecamera, e inquadra il palco delle autorità, dove siede il presidente della Repubblica Sandro Pertini; è livido, espressione più che severa. Non sa di essere inquadrato. Il labbro impercettibilmente freme, e con il capo assente. E’ d’accordo con il cardinale: anche per lui, non è solo la Cosa Nostra.
Cosa ne sa, il vecchio Presidente? Lui è ligure, di mafia mastica quello che sanno tutti coloro che non sono nati in Sicilia; di sicuro certe sfumature, cenni d’occhi, espressioni a mezza bocca, gli sfuggono. Però il vecchio Presidente, all’indomani della strage di piazza Fontana a Milano, è l’unico politico a intuire che gli anarchici con quella bomba non c’entrano nulla; lui, per limpida coerenza, rifiuta la stretta di mano al questore di Milano Marcello Guida; sapremo dopo perché: Guida durante gli anni del fascismo ha comandato la colonia di confino politico di Ventotene, dove tra gli altri erano tenuti prigionieri Eugenio Colorni, Luigi Longo, Ernesto Rossi, Pietro Secchia, Altiero Spinelli, Umberto Terracini; e lo stesso Pertini. Chissà: il vecchio Presidente, ha un caratteraccio, ma non difetta di fiuto, qualcosa l’ha capita… E poi Leonardo Sciascia. Lo scrittore non ama sentirsi definire mafiologo; ma la Cosa Nostra la conosce bene. Lui i “segni”, i “linguaggi” li sa cogliere, interpretare… Il 7 gennaio 1980 affida al “Corriere della Sera” una riflessione: “…Non mi pare di trovarmi di fronte ad un delitto di mafia, anche se nessun dato di fatto possa in questo momento appoggiare la mia impressione. Non sono, d’altra parte, d’accordo con coloro che lo vedono come un delitto terroristico a partecipazione mafiosa. O è mafia, o è terrorismo. O mafia camuffata da terrorismo o terrorismo che, inevitabilmente o confortevolmente, ci si ostina a vedere come mafia”. Vero è che dopo la morte di Falcone due collaboratori di giustizia considerati di peso, Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo, indicano il delitto come esclusivamente di mafia. Nel 1993 Buscetta dichiara che “Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina (o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare) che non si doveva ammazzarlo… In ogni caso… fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione”.
Perché la Cosa Nostra vuole Mattarella morto? Perché vuole portare avanti un’opera di modernizzazione dell’amministrazione regionale e per questo entra in contrasto con l’ex sindaco Vito Ciancimino, referente politico dei Corleonesi. Mattarella vuole chiedere al segretario nazionale della DC Benigno Zaccagnini il commissariamento del Comitato Provinciale di Palermo della DC, perché ha visto “ritornare con forte influenza Ciancimino”; quel Ciancimino che ha siglato un patto di collaborazione con la corrente andreottiana, e il suo proconsole siciliano Salvo Lima. Francesco Cossiga racconta che la mafia ha voluto la morte di Mattarella perché non disponibile a concedere contropartite per l’appoggio elettorale che aveva concesso alla DC. Un ex agente segreto francese Pierre (in queste storie piene di tanti misteri e qualche segreto, un agente segreto francese non manca mai), in un suo libro, “Le KGB au coeur du Vatican”, suggerisce che mafia e P2, presumibilmente tramite l’eversione di destra, abbiano collaborato fin dal 1970 per sorvegliare e poi uccidere Mattarella; qui però si scivola in una sorta di spy story alla John Le Carré: il movente sarebbe nientemeno che il KGB sovietico: Mattarella, allievo di Aldo Moro, sostiene il compromesso storico, e il Cremlino teme lo snaturamento del PCI, e che si sottragga all’influenza sovietica.
Meglio restare ancorati ai fatti; e i fatti dicono che Falcone, il 3 novembre 1988 dichiara: “È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la pista nera sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa” (affermazione che si ricava dalla pubblicazione dell’audio integrale dell’audizione alla Commissione Antimafia dell’epoca). In quel momento Falcone sta svolgendo indagini su un paio di terroristi neofascisti indiziati dell’uccisione di Mattarella e sull’ipotesi della connessione tra estremismo nero e Cosa nostra; aggiunge che quell’eventuale convergenza d’interessi “potrebbe significare altre saldature, e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese, anche da tempi assai lontani”.
Conviene tornare al possibile movente. Assicurare un buon governo quotidiano, contrastare la spartizione degli appalti assegnati senza legge, combattere le clientele; in una parola, ridare speranza a una Palermo e a una Sicilia strangolate dalla fitta ragnatela politico-affaristico-mafiosa: questo il programma ambizioso di Mattarella; questa, al di là dei funambolismi dell’agente de Villemarest riferiti per puro dovere di cronaca, la chiave del delitto. Ne era, e lo è tuttora, convinto Grasso: “Perseguiva questo scopo: dare un volto diverso della Sicilia, dare un’immagine diversa della Sicilia all’esterno”. Per definirlo, bastano quattro parole: una persona per bene. E’ figlio di Bernardo, potente democristiano siciliano negli anni ’50-’60, sul cui conto molto si favoleggia. Il generale Dalla Chiesa, intervistato il 10 agosto 1982 da Giorgio Bocca collega esplicitamente l’uccisione di Piersanti alla vicenda politica paterna: “E’ accaduto questo, che il figlio, certamente al corrente di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, ha voluto che la sua attività politica come amministratore pubblico fosse esente da qualsiasi riserva. E quando ha dato la chiara dimostrazione di mettere in pratica questo intento, ha trovato il piombo mafioso, il caso Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi, anche nella Dc aveva più di un nemico”. Si forma alla scuola di Moro; i punti di riferimento ideali e culturali sono don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira. Mattarella ha il puntiglio di chi vuole concepire e gestire in modo diverso la cosa pubblica, e dare un taglio secco alla politica degli affari che domina in Sicilia. Da assessore al bilancio della regione, fa cose “normali” e che per questo sono “rivoluzionarie”: presenta il bilancio nei tempi prescritti dalla legge, senza rinvii ed emendamenti compiacenti ai vari centri di potere reale; la sua mentalità manageriale scardina consolidate cattive pratiche di gestione del potere.
Assicurare un buon governo quotidiano significa contrastare la spartizione degli appalti assegnati senza legge, combattere i signori delle clientele e delle tessere; incidere quella fitta ragnatela politico-affaristico-mafiosa che avvolge e strangola Palermo e la Sicilia. Per questo che le indagini si concentrano sulle attività del Mattarella politico e amministratore. L’amministratore che rimuove assessori chiacchierati; il politico che ha visioni non legate alla contingente gestione del potere fine a sé stesso. Ancora Sciascia: “L’assassinio davanti ai familiari non rientra nelle regole, o meglio, nel sentire della mafia. Poi ci sono altre cose: la giovinezza del killer, perché stando alle testimonianze pare fosse giovanissimo: questo mi pare deponga a favore di una tesi di gente specializzata, che viene da fuori, pur avendo qui delle basi informative”. Di certo il killer e i suoi complici agiscono con la precisione di un chirurgo. Mattarella è un bersaglio facile, privo com’è della scorta. Qualcuno deve pur aver “confidato” che quel giorno non c’è nessuno a guardagli le spalle. Oppure, pazientemente osservato, hanno scelto il momento favorevole. Dopo, appunto, averlo pazientemente, lungamente, “osservato”; senza che nessuno abbia visto, saputo, anche solo immaginato quello che si prepara, si trama…
E’ una feroce stagione di sangue, quegli anni ‘80. Inquietante la scansione dei delitti: prima di Mattarella, nel perimetro di poche centinaia di metri quadrati uccidono il capo della squadra mobile Boris Giuliano; poco lontano, trecento metri, un magistrato che della lotta alla mafia ha fatto la sua missione: Cesare Terranova; a trecento metri dall’abitazione di Mattarella, esplode la bomba che dilania il capo della Procura Rocco Chinnici, cinquecento metri più in là, viene massacrato il segretario provinciale della Dc Michele Reina; poco prima tocca a giornalista che la mafia vede come fumo negli occhi, Mario Francese…e ancora: un magistrato che indaga sulla Cosa Nostra, Gaetano Costa; Pio La Torre, segretario regionale del PCI…Un elenco che non finisce più: politici, magistrati, giornalisti, carabinieri, poliziotti. Una mattanza… Per il delitto Mattarella sono condannati all’ergastolo Totò Riina, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano: i vertici della Cosa Nostra corleonese. Ignoti i killer, nebulose le connivenze, le omertà. Molti reperti utili non si trovano più. Per esempio, il guanto di pelle dimenticato dal killer. Era nell’ufficio corpi di reato. Sparito. Non c’è di che stupirsi: nelle storie di mafia (non solo di mafia, a dire il vero), a sparire non sono solo le “agende rosse”. Sono una quantità gli “oggetti” che possono parlare e “raccontare” che non si trovano più, cessano di esistere: distrutti; o “custoditi” in chissà quale inaccessibile archivio…
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