Il 2019 della politica italiana. Un anno vissuto pericolosamente. Due governi si alternano, dal tono gialloverde, pentaleghista, al giallorosso. E i partiti si frantumano ancora

Il 2019 della politica italiana. Un anno vissuto pericolosamente. Due governi si alternano, dal tono gialloverde, pentaleghista, al giallorosso. E i partiti si frantumano ancora

Dal governo gialloverde al governo giallorosso. Il 2019 inizia con diverse fibrillazioni per l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, che al suo fianco vede i due vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Ed è proprio con il leader della Lega che il rapporto va deteriorandosi a partire dai primi mesi dell’anno, con il giro di boa rappresentato dalle elezioni europee di maggio. All’indomani della chiamata alle urne dei cittadini dell’Ue, gli equilibri all’interno della maggioranza subiscono un forte scossone: il Carroccio incassa il 34 per cento, con i 5Stelle che invece incassano una vera e propria sconfitta passando dal 32,7 delle Politiche al 17%. E’ da qui che Salvini comincia ad alzare la voce all’interno della maggioranza, ponendo fin da subito i paletti sulla Tav, sulla legge di Bilancio da approvare in autunno e procedendo al rafforzamento del primo decreto sicurezza. Il titolare del Viminale arriva al voto per le Europee con il no del Senato all’autorizzazione a procedere in giudizio in riferimento al caso Diciotti (11 marzo). L’esecutivo in questa occasione è compatto, con i pentastellati che, dopo la consultazione sulla piattaforma Rousseau, si schierano con il ministro e lo salvano dal processo. Pochi giorni dopo, il 20 marzo, anche la mozione di sfiducia presentata dal Partito democratico contro il ministro delle Infrastrutture e trasporto, Danilo Toninelli, viene respinta.

Non è però tutto oro quello che luccica. Mentre la Lega alza l’asticella delle pretese, puntando soprattutto sul provvedimento per l’Autonomia differenziata, personale cavallo di battaglia, subisce anche due ‘epurazioni’: la prima riguarda Armando Siri, sottosegretario indagato per corruzione (8 maggio), dimessosi a poche ore dal Consiglio dei ministri che avrebbe firmato la revoca; la seconda riguarda il viceministro alle Infrastrutture e Trasporti, Edoardo Rixi, che rassegna le dimissioni in seguito alla condanna per le spese pazze in Liguria. E’ però sull’alta velocità Torino-Lione che si infiamma lo scontro. Di Maio porta avanti la sua battaglia contro il traforo, mentre Salvini si irrigidisce attaccando il socio di governo: “Il no grillino sulla Tav è contro il buon senso”. I tempi stringono e l’immobilismo del governo sull’opera rischia di far pagare all’Italia un conto salatissimo. Alla fine è Conte a sciogliere il nodo, a poche ore dalla scadenza del bando Telt. Il 23 luglio, vigilia anche dell’informativa del premier in Parlamento sul caso Savoini, con un video su Facebook, Conte dice sì: “Sono intervenuti fatti nuovi di cui dobbiamo tenere conto, nella risposta che venerdì il governo dovrà dare per evitare la perdita dei finanziamenti europei. L’Europa si è detta disponibile ad aumentare il finanziamento”. Salvini canta vittoria, mentre Di Maio pur non sconfessando il presidente del Consiglio ribadisce che la Tav “è dannosa” e annuncia una mozione in Parlamento che “restituirà a tutti la verità dei fatti”. E’ l’opera piemontese che segna il declino del governo gialloverde. Siamo ai primi giorni di agosto, il capo di Palazzo Chigi si è già lavato le mani dell’affair Moscopoli, precisando a palazzo madama che Savoini era nella delegazione del ministro Salvini e che dallo stesso “non ho ricevuto informazioni”. Tornando all’alta velocità, il 7 agosto, sempre in Senato vengono approvate quattro mozioni (presentate da Partito Democratico, +Europa, Forza Italia e Fratelli d’Italia) a favore della realizzazione della Tav e respinta quella del Movimento 5 Stelle contrario all’opera. Per la Lega il documento pentastellato è un ‘tradimento’ nei confronti di Conte. Si susseguono i vertici a palazzo Chigi con il premier che prima incontra Salvini e poi in separata sede Di Maio. Il giorno seguente il Carroccio esce dalla maggioranza di governo aprendo di fatto la crisi, meglio conosciuta come quella del Papeete Beach di Milano Marittima, luogo di villeggiatura del vicepremier, e invocando le urne.

In serata Conte rilascia una breve dichiarazione a Palazzo Chigi: “Vuole le elezioni per capitalizzare il consenso di cui la Lega gode. La crisi si porta in Parlamento”. Il 9 agosto arriva in Senato la mozione di sfiducia al governo e porta la firma del capogruppo leghista Massimiliano Romeo. Il 20 agosto, Conte riferisce al Senato in merito alla crisi di governo in atto, annunciando le proprie dimissioni; nel corso del dibattito la Lega ritira la sua mozione di sfiducia e tenta i 5Stelle aprendo a un sostegno per l’approvazione della legge sul taglio dei parlamentari, già calendarizzata a settembre. Il premier non fa però passi indietro e in serata rimette il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Più passano i giorni e più si allontana l’ipotesi delle urne anticipate. Salvini si rende disponibile a formare un nuovo governo con il M5S, proponendo Luigi Di Maio come presidente del Consiglio: questi rifiuta tuttavia ogni ipotesi di accordo col partito che ha ormai aperto la crisi.

In seguito alle consultazioni di rito, è stata rilevata la possibile esistenza di una nuova maggioranza parlamentare tra Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali. Dopo numerosi incontri tra il capo politico pentastellato Di Maio e il segretario del PD Nicola Zingaretti, il 29 agosto il presidente della Repubblica Mattarella conferisce nuovamente a Giuseppe Conte l’incarico di formare il nuovo governo. Il 4 settembre il premier incaricato scioglie la riserva, annunciando la composizione del nuovo Consiglio dei Ministri. L’indomani Conte e i ministri giurano davanti al presidente della Repubblica e il governo entra ufficialmente in carica. La fiducia in Parlamento consolida il nuovo esecutivo: alla Camera sono 343 voti favorevoli, 263 contrari e 3 astenuti (i deputati della SVP); mentre in Senato sono 169 voti favorevoli, 133 contrari e 5 astenuti (Gianluigi Paragone del M5S, Matteo Richetti del PD e i 3 senatori della SVP). Il 17 settembre la maggioranza giallorossa cambia di nuovo volto. Matteo Renzi, dopo aver sostenuto il governo di legislatura in piena crisi agostana, lascia il Pd e annuncia la nascita di Italia Viva, portando con sé due ministri: Elena Bonetti e Teresa Bellanova, che diventa capo delegazione di Iv nel governo. L’8 ottobre la Camera approva il via definitiva la legge sul taglio dei parlamentari, provvedimento bandiera del Movimento 5 Stelle. E’ il momento della Manovra finanziaria, che il governo vara in netto ritardo il 4 novembre, aprendo in seno alla sua maggioranza uno scontro su plastic e sugar tax. E’ il partito di Renzi a mettersi di traverso ottenendo alla fine il rinvio delle due tasse.

Intanto scoppia il caso ex Ilva. Arcelor Mittal annuncia l’intenzione del gruppo siderurgico di dismettere lo stabilimento di Taranto, lasciando di fatto l’Italia. Si apre una lunga trattativa con l’azienda franco-indiana, che non ha ancora visto una soluzione ed è stata rimandata al nuovo anno. Un’altra grana per Conte arriva dall’Europa. A dicembre la ratifica delle modifiche al MES, il cosiddetto fondo salva-Stati, crea non pochi attriti tra il presidente del Consiglio e Luigi Di Maio, spaccando il Movimento, che perde tre senatori, Grassi, Lucidi e Urrao, che approdano nel gruppo del Carroccio. Superate le tensioni interne, la legge di Bilancio viene approvata alla Camera (dopo un solo esame in Senato) il 24 dicembre alle 4.44 del mattino con 312 favorevoli e 153 contrari. I guai però non sono finiti per Conte. Sotto l’albero di Natale il premier si trova le dimissioni del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che si lamenta dei pochi fondi indirizzati dalla manovra al Miur. Il capo di palazzo Chigi chiude la vicenda in fretta. In conferenza stampa di fine anno annuncia lo scorporo del Miur, separandolo in due dicasteri: il Ministero della Scuola, affidandolo a Lucia Azzolina, e il Ministero dell’Università, Ricerca e Afam a Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico II di Napoli e presidente della Conferenza dei rettori.

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