
Si è tenuta il 19 dicembre 2019 presso il Senato della Repubblica una iniziativa per ricordare Umberto Terracini (presidente della Costituente e firmatario della Costituzione assieme a De Nicola presidente della Repubblica e a De Gasperi, presidente del consiglio dei ministri) come “padre della patria”. L’iniziativa era stata promossa dalla vicepresidente del Senato sen. Anna Rossomando, dal sen. Lorenzo Gianotti, autore di un volume biografico su Terracini, dall’ANPI e dall’ANPPIA (Associazione nazionale dei perseguitati politici antifascisti) di cui Terracini fu presidente. Relatori erano, assieme ai promotori, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella. Partecipava e interveniva il rappresentante della Comunità ebraica romana. Qui di seguito l’intervento di Aldo Tortorella.
Vorrei innanzitutto ringraziare tutti i promotori per aver pensato e realizzato questa iniziativa in ricordo di Umberto Terracini, una iniziativa mai così necessaria come ora. Vi sono qui molti giovani studenti venuti con i loro docenti da Livorno – collegio senatoriale di Terracini per quarant’anni – e ad essi e ai loro coetanei è particolarmente e giustamente indirizzato questo incontro. Perché da molto tempo è in atto una campagna di disinformazione che descrive tutti i partiti in quanto tali come luoghi del malaffare e getta tutti i politici di professione nella pece bollente del girone dei barattieri infamando così gli onesti che furono la maggioranza. Si è voluto disfare la prima repubblica che pure aveva ricostruito l’economia e il prestigio dell’Italia trascinata alla rovina e all’infamia dal fascismo e dal nazismo, ma le magnifiche sorti di questa seconda o terza repubblica sono state e sono sotto i nostri occhi ora che si deve temere addirittura per le sorti della nostra democrazia. E si volle da parti opposte stravolgere la Costituzione, due volte salvata dal voto popolare, ma non al riparo da chi vuole cancellarne le fondamentali conquiste.
È perciò importante rammemorare l’esempio di onestà e di dedizione dei politici che hanno costruito la nostra repubblica, di quali sacrifici di sé sia stata intessuta la loro vita e di quanto studio fosse la loro formazione culturale cui si deve la nostra Carta costituzionale, la prima al mondo in cui si pronuncia l’esigenza di portare a sostanza effettiva le irrinunciabili conquiste delle libertà democratiche e dell’eguaglianza formale. Ecco l’esempio di Terracini: 18 anni in carcere patiti per non cedere alla tirannide, la partecipazione alla Resistenza per il riscatto dell’Italia, una raffinata cultura giuridica impegnata nella stesura della Costituzione, la direzione della Costituente sino alla firma della Carta, l’attività più che trentennale di legislatore, l’abilità forense al servizio degli ultimi e dei perseguitati.
Ma l’esempio di Terracini riguarda in modo determinante anche il modo con cui ha vissuto la sua scelta politica comunista entro la lotta democratica e nella vita interna del suo (e mio) partito. Si è dichiarata, persino in documenti ufficiali, una identità tra sovietici e nazisti e tra comunisti e fascisti ignorando che le terribili tragedie dello stalinismo non possono far dimenticare che senza la resistenza e i milioni di caduti sovietici l’Europa sarebbe sprofondata sotto la barbarie razzistica degli autori del genocidio degli ebrei e dei promotori della più spaventosa guerra che abbia devastato l’Europa e il mondo. E si dimentica che l’appellativo comunista fu il medesimo per i persecutori che arrivarono alla strage dei propri compagni rivoluzionari e per coloro che furono perseguitati, per chi creò e seguì una dottrina dogmatica generatrice di fanatismi e per chi, come Antonio Gramsci, seppe intendere il pensiero marxiano secondo la sua natura di pensiero critico per indirizzare in tal modo il proprio partito. Su questa strada del pensiero marxiano come pensiero critico, una strada piena dei più aspri ostacoli, camminò Terracini,.
Quando Terracini compì i suoi ottanta anni nel 1975 toccò a me fare il breve indirizzo augurale che si aggiungeva a un documento formale della direzione del PCI poi quasi tutta presente alla piccola cerimonia, a partire da Berlinguer segretario. Era una consuetudine antica quella dei auguri ai dirigenti più autorevoli . Naturalmente si trattava di semplici brindisi, tra dirigenti e compagni tecnici che lavoravano in direzione. Solo alla celebrazione dei 60 anni di Togliatti, nel ’53 – compiuti a poche settimane dalla morte di Stalin- fu dato rilievo pubblico dato che quel compleanno seguiva una serie di scampati pericoli a partire dall’attentato nel ’48, e poi un assai grave – e dubbio – incidente di macchina due anni dopo e, soprattutto, il rischio del ritorno ad una sorta di esilio tra Praga e Mosca, alla guida del Cominform dove , su richiesta di Stalin, lo aveva destinato (era la fine del 1950) un voto della direzione del PCI con l’astensione di Luigi Longo e il voto contrario quello, appunto, di Umberto Terracini ancora una volta in esigua minoranza (con Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio) rispetto a tutti gli altri dirigenti.
Non so bene perché mi fosse stato affidato l’onore dell’indirizzo augurale in quel suo ottantesimo compleanno. Certo è che la prima volta del mio ingresso nella sala della direzione del partito come partecipe di quell’organismo, cui ero stato appena eletto nel congresso di più di mezzo secolo fa (1966), tra le poche seggiole vuote che ancora c’erano scelsi quella a fianco di Terracini. E quella vicinanza rimase nel tempo. Attribuivo a quella scelta un significato simbolico e, forse, quel significato non era solo nella mia testa. Il senso di quell’augurio tanto lontano, fortunosamente ritrovato, era quello della gratitudine per una vita spesa per un ideale con assoluta fermezza ma anche con piena libertà di pensiero. Le polemiche antiche erano del tutto dimenticate anche se una diversità ancora appariva nella sua vicinanza a posizioni sui diritti civili particolarmente espresse dai radicali italiani e su cui il PCI arriverà assai gradatamente, oltre che in una distanza critica dal partito sovietico su cui Berlinguer verrà poi attestando il partito.
La generazione cui appartengo è quella che è divenuta adulta negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, che usciva dall’adolescenza al tempo della battaglia di Stalingrado e che partecipò in larga misura alla Resistenza. Avevo dunque conosciuto Terracini nel dopoguerra quando era già stato riammesso nel suo partito e di nuovo era nel comitato centrale e poi nella direzione nazionale seppure come “membro candidato”, lui che era stato uno dei fondatori del Partito. Come tanti, ero un ammiratore dalla sua oratoria incredibilmente precisa e tagliente, dotata di un periodare complesso sempre impeccabile e soprattutto di una consequenzialità logica senza la più piccola incrinatura. Ma conoscevo la diffidenza nei suoi confronti di molti dei più anziani, alcuni dei quali avevano promosso la sua espulsione dal partito durante la comune carcerazione fascista a causa – come si sa – dell’aperto dissenso sul patto Molotov-Ribbentrop del 1939 per la spartizione della Polonia che indignò gran parte degli antifascisti ma che l’Urss affermerà necessario per evitare che Hitler iniziasse la sua conquista a partire dall’Europa dall’est con il tacito assenso delle potenze europee occidentali allora non ancora in guerra contro la Germania e dirette dai medesimi governi (Chamberlain in Inghilterra, Daladier in Francia) già compromessi con i nazisti per aver sottoscritto il patto di Monaco – formalmente mediato da Mussolini, alleato e succube di Hitler.
Il patto di Monaco, esecrato anche da Churchill (“Volevate la pace, disse, ma avete il disonore e avrete la guerra”) consegnava vasta parte della Cecoslovacchia alla Germania dopo che le potenze europee avevano mantenuto un silenzio complice sull’Anschluss, cioè sull’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Tuttavia, l’interpretazione del patto tedesco-sovietico come una precauzione – come un modo di guadagnare tempo – sarà possibile sostenerla fondatamente solo due anni dopo, cioè dopo l’aggressione nazista alla Russia. Nell’immediato quel patto parve solo un tradimento. L’adesione della maggioranza dei comunisti carcerati così come quella del gruppo dirigente in esilio veniva in sostanza dalla fiducia – spontanea o imposta che fosse – nell’Unione Sovietica e in Stalin stesso. In effetti il partito comunista italiano (quando anch’io vi entrai al tempo della resistenza), era nella maggioranza dei suoi dirigenti severamente staliniano. Il prestigio, anzi il mito di Stalin era fortissimo e si accrebbe dopo Stalingrado e dopo la bandiera rossa sul Reichstag, anche se una tale credenza non era senza dubbi nei singoli di provenienza trotzkista o, all’opposto, di origine liberal socialista. “Noi non sappiamo ancora se il difetto sia nel sistema o del sistema”, mi aveva detto un mio compagno dirigente del Fronte della Gioventù a proposito dello sterminio del gruppo dirigente bolscevico. E un compagno anziano – che, come seppi poi, aveva assistito al congresso del Comintern (il quinto,1924) dello scontro tra Stalin e Trotzki, per cui poi parteggerà – alle mie domande rispose: “I processi staliniani sono tutti falsi. Ma ora in guerra dobbiamo stare con l’Urss”. Era la stessa opinione di Terracini.
La polemica che il giovane Terracini, come membro del primo esecutivo del neonato partito comunista, aveva sostenuto nell’Internazionale contro Lenin (era il 1921), quando questi raccomandava il fronte unico, cioè l’intesa con i socialisti e poi, con posizione divenuta del tutto diversa, il suo dissenso rispetto alla svolta settaria alla fine degli anni ‘20 (quella del sesto congresso dell’internazionale che proclamò la lotta alla socialdemocrazia come social fascismo), unitamente all’espulsione per la ripulsa dell’accordo Molotov-Ribbentrop, facevano di Terracini, nella vulgata interna ai vecchi quadri del partito di quegli anni della guerra e del primo dopoguerra un “deviazionista”, un antisovietico, un estraneo, nonostante gli anni di carcere, tanto che il ruolo di segretario della breve repubblica partigiana dell’Ossola, come ricorda Gianotti, gli era stato affidato innanzitutto per merito di un compagno socialista.
Poco contava che le critiche di Terracini al corso politico del suo partito e di quello sovietico fossero avvenute da posizioni opposte. Dapprima (nella polemica con Lenin) come sinistro estremo sostenitore della parola d’ordine “classe contro classe” , legato alla segreteria di Bordiga sia pure come rappresentante del gruppo dell’Ordine Nuovo gramsciano, poi (nella critica alle espulsioni degli anni ‘30) come espressione della politica nuova e antisettaria che Gramsci aveva voluto e veniva teorizzando in carcere nella incomprensione degli stessi compagni di galera. La stessa opposizione all’accordo russo tedesco del ‘39 era stata , in sostanza, la testimonianza di una profonda avversione alla temuta possibilità che il regime sovietico smentisse se stesso in quanto forza antifascista. Terracini sarà riammesso nel partito unicamente per volontà di Togliatti impegnato in una difficile mediazione con il nucleo dirigente del partito che veniva dalla clandestinità. Ma il reingresso nel partito – e con il ruolo dirigente che gli spettava – non aveva fatto cessare la diffidenza, se non la ostilità, di molti dirigenti che venivano dalla clandestinità .
Ne ebbi la prova assistendo alla “commissione politica” del congresso del Pci (era la fine del 1947) immediatamente successivo alla rottura del governo di unità nazionale e alla contemporanea scissione del partito socialista operata da Saragat. Questi si era dovuto dimettere da presidente della Costituente e Togliatti propose e ottenne, sebbene a fatica, l’elezione di Terracini . Partecipavo a quella seduta riservata presieduta da Togliatti, di cui si darà un edulcorato resoconto, come giornalista dell’Unità ma anche come dirigente di partito per i trascorsi di precoce galeotto e partigiano. Lo scopo di quella riunione – come tutte le analoghe di ogni congresso – avrebbe dovuto essere la stesura di un documento politico finale (che naturalmente ci sarà). In realtà assistetti ad una sorta di processo a Terracini. La colpa era quella di aver rilasciato un’intervista ad un giornalista americano, nella sua qualità di presidente della costituente, in cui poteva apparire equidistante tra Urss e Stati Uniti rispetto alla rottura dell’unità antifascista a livello mondiale che segnò l’inizio di quella che sarà chiamata la guerra fredda. L’uno dopo l’altro i più dei dirigenti che intervenivano biasimavano l’equidistanza, sottolineavano la diversità tra le due superpotenze, chiedevano autocritica, accennavano in modo più o meno rude al bisogno di sconfessione da parte del congresso. Fui colpito, però, dalle conclusioni che Togliatti svolse alla fine. Parlò esclusivamente dei problemi che si aprivano nella nuova fase politica di rottura dell’unità nazionale, senza dire una sola parola su Terracini, come se nessuno ne avesse parlato e come se chi ne aveva parlato non fosse nessuno. Era abbastanza chiaro che si proponeva di risolvere la questione in separata sede, come fece salvaguardando al massimo Terracini, ma era chiaro anche, conoscendo i precedenti, che l’attacco a Terracini non era solo una rivalsa contro di lui, ma anche contro Togliatti come suo sostenitore, e, soprattutto, come autore di una linea politica considerata troppo arrendevole dalla frazione occulta che faceva capo a Secchia, responsabile dell’organizzazione e vicesegretario del partito. Era una critica – solo accennata nelle riunioni, ma diffusa tra i quadri del nord – che echeggiava quella espressa da Zdanov, delfino di Stalin, all’apertura di una nuova internazionale – il Cominform (Ufficio d’informazione tra i partiti comunisti e operai) – voluta dai sovietici (era sempre il 1947) per riprendere un più diretto controllo dei partiti divenuti autonomi dopo lo scioglimento nel tempo di guerra della terza internazionale fondata ai tempi di Lenin. E Terracini aveva attaccato nel metodo e nel merito, all’interno della direzione del partito, anche la scelta di quella ricostituzione e dell’adesione italiana.
Egli aveva avuto ragione, dopo l’estremismo giovanile, nel criticare per tempo il settarismo del social fascismo interpretando correttamente la posizione dello stesso Gramsci, un settarismo che , invece, fu approvato dai dirigenti in esilio in Russia poiché ormai ogni dissenso comportava rischi mortali Quel settarismo determinerà rotture anche nel partito italiano e, in Germania, favorirà l’avvento del nazismo. Passata la guerra, Terracini diverrà uno dei più precisi interpreti della linea del partito nuovo, nazionale e democratico di Togliatti, correggendola per ciò che riguardava il rapporto con i sovietici, ma senza distaccarsi da Togliatti nei momenti più tragici, come fu per l’Ungheria, quando parve anche a lui in pericolo la pace del mondo. A me pareva e pare che la sua diversità stesse nella sua capacità di mantenere un tratto d’indipendenza intellettuale e di eticità personale anche nelle scelte dure o sbagliate che talora sembrano necessarie nell’asprezza dello scontro politico, come accadde talora al suo e nostro partito e, in vario modo, a ciascuno dei suoi dirigenti (compreso ovviamente chi scrive queste note). Ma egli non fu solo un esempio di integrità intellettuale e morale, ma fu anche per molti aspetti un esempio di lungimiranza. Previde che in Italia la politica unitaria non sarebbe durata e che bisognava attrezzarsi per un’alternativa democratica, previde, pur evitando l’antisovietismo preconcetto, la insostenibilità delle scelte staliniane sebbene apparissero vincenti, fu difensore dei valori profondi della cultura ebraica senza scadere nell’integralismo. Ma molto altro dovrebbe essere ricordato. Se le sue opinioni fossero state sempre ben ascoltate ciò avrebbe giovato al suo partito e all’Italia.
La sua lezione non si limita a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Alla fermezza delle sue opinioni aggiungeva il senso di una umanità aperta e gentile, l’arguzia e l’ironia figlie di una cultura validamente antica, così dimostrando che il rivoluzionario, come egli chiamò se stesso fino alla fine, è esattamente l’opposto della superficialità, della grossolanità e della rozzezza che portarono a gravi errori antichi e oggi sono tornati come marchio di coloro che nuovamente invocano l’autoritarismo di un uomo solo al comando. Anche questa lezione per la civiltà della discussione e per la serietà dell’argomentare è un insegnamento di cui essergli profondamente grati. Ne abbiamo un grande bisogno ora che è in atto una lotta contro il tentativo di tornare ad un regime autoritario fondato sulla paura più irrazionale, sull’odio contro tutti i diversi, sulla violenza del linguaggio più rozzo. Molti giovani si vanno opponendo in tante mobilitazioni spontanee e cantano il canto dei partigiani. L’esempio di uomini come Terracini è più che attuale che mai.