Istat. Il Rapporto Italia 2019. I dati relativi a occupazione, denatalità e Pil

Istat. Il Rapporto Italia 2019. I dati relativi a occupazione, denatalità e Pil

L’ultimo decennio ha visto aumentare la distanza fra giovani e adulti rispetto alla stabilità del lavoro. La quota di dipendenti a tempo indeterminato tra i giovani è scesa dal 61,4% del 2008 al 52,7% del 2018 mentre quella degli over 35 è aumentata di 1,1 punti, attestandosi al 67,1%. Inoltre circa un terzo dei 15-34enni occupati nel 2018 ha un lavoro a tempo determinato. L’innalzamento del livello medio di istruzione della popolazione fa sì che il ricambio generazionale degli occupati avvenga in favore di coorti sempre più istruite. Conseguentemente, aumenta nel decennio la quota di laureati tra gli occupati, dal 17,1% al 23,1% (pari a 1 milione 431 mila laureati in più). L’aumento del livello di istruzione degli occupati, in un contesto che ha visto solo negli ultimi anni una ripresa del lavoro qualificato, ha comportato un progressivo aumento della quota di laureati occupati in un lavoro che richiede un titolo di studio inferiore.

Nel 2018 i laureati “sovraistruiti” sono circa 1,8 milioni, in aumento nel quinquennio 2013-2018 dal 32,2 al 34,1%. Nel complesso, a una maggiore dotazione di capitale umano corrisponde una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto per le donne. All’aumentare del titolo di studio diminuiscono i divari di genere: il tasso di occupazione nel 2018 supera ancora i 18 punti percentuali a sfavore delle donne, ma per quelle laureate la differenza si riduce a 8,2 punti. Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione di chi possiede almeno la laurea è il doppio di quello di chi ha al massimo la licenza media, a conferma del ruolo positivo che il capitale umano riveste nella determinazione di una più o meno elevata performance individuale; per i titoli di studio più elevati si dimezzano i tassi di disoccupazione e di mancata partecipazione e si riduce il divario con il centro-nord. Se il livello di istruzione si conferma fattore determinante per la partecipazione e il successo nel mercato del lavoro, anche il proseguimento dell’attività formativa lungo tutto l’arco della vita (lifelong learning) costituisce un volano essenziale di crescita economica e di sviluppo. Fra il 2012 e il 2017 la quota di persone tra 25 e 64 anni che dichiarano di avere effettuato almeno un’attività di formazione nell’ultimo anno è passata dal 35,6 al 41,5%, con percentuali significativamente più elevate per chi ha conseguito un titolo di studio più alto (72%). Essere occupati costituisce una prerogativa per partecipare alle attività di formazione. La metà degli occupati ha partecipato ad attività formative nell’ultimo anno, contro il 24,6% dei disoccupati e il 18,7% degli inattivi. Tale percentuale aumenta al crescere della posizione nella professione, da meno di un terzo per le posizioni non qualificate a oltre due terzi tra dirigenti, imprenditori e liberi professionisti. Le competenze digitali appaiono fra le più spendibili nel mercato del lavoro. Nel 2016 (ultimo anno disponibile), tra le forze di lavoro che avevano usato Internet negli ultimi tre mesi, la quota di chi possiede competenze digitali elevate è in linea con la media Ue solo per quel che riguarda l’area software (51%), per le altre aree di competenza si sconta un netto ritardo: meno 16 punti percentuali nella soluzione dei problemi (53 contro 69%) e nell’informazione (67 contro 83%) e meno 8 punti percentuali nella comunicazione (67 contro 75%).

Nel 2018 l’occupazione aumenta per il quinto anno consecutivo (+192 mila persone, +0,8%), sebbene con minore intensità rispetto ai due anni precedenti (+1,2 e +1,3%, rispettivamente, nel 2017 e 2016). Secondo quanto emerge dal Rapporto annuale 2019 realizzato dall’ISTAT, il livello dell’occupazione torna a essere il più alto degli ultimi dieci anni, superando di 125 mila unità quello del 2008 (+0,5%). Anche il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni (58,5%) sfiora i livelli massimi del 2008. I disoccupati si riducono per il quarto anno consecutivo nel 2018 (-151 mila, -5,2%), rimanendo tuttavia 1 milione e 100 mila in più rispetto a quelli del 2008. Il tasso di disoccupazione ha seguito lo stesso andamento, raggiungendo il 10,6% (6,7% nel 2008). Nel 2018 la forza lavoro non utilizzata e potenzialmente impiegabile nel sistema produttivo ammonta a 5,8 milioni di individui (2,8 milioni di disoccupati e 3 milioni di forze lavoro potenziali); tale aggregato, che nel 2008 era pari a circa 4 milioni e mezzo, dopo aver raggiunto il picco di 6,7 milioni nel 2014, si è ridotto progressivamente a partire dal 2015. Il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-crisi è dovuto esclusivamente al lavoro dipendente che, in dieci anni, è aumentato di 682 mila unità (+4,0%), a fronte di un calo di oltre mezzo milione di lavoratori autonomi, la cui quota sul totale occupati è scesa progressivamente dal 25,5% nel 2008 al 22,9% nel 2018. Il forte aumento del lavoro alle dipendenze nel corso del decennio è dovuto essenzialmente al tempo determinato (+760 mila unità rispetto al 2008) anche se tra il 2014 e il 2017 la componente a tempo indeterminato ha gradualmente recuperato le perdite subite durante la crisi. Dopo un nuovo arretramento nel 2018 (-108 mila, -0,7%), l’occupazione dipendente a carattere permanente ha mostrato segni di recupero nei primi mesi del 2019. Il calo degli indipendenti ha risentito della forte diminuzione dei collaboratori, quasi dimezzati in dieci anni (-220 mila, -48,4%), degli autonomi con dipendenti (-189 mila, -11,8%), e di quelli senza dipendenti (-148 mila, -3,9%). Questi ultimi sono tuttavia tornati a crescere negli ultimi quattro anni, raggiungendo il 69,1% sul totale dei lavoratori indipendenti (+4 punti percentuali rispetto al 2008).

Sebbene il numero di occupati abbia superato i livelli pre-crisi, il volume di lavoro misurato in termini di ore lavorate è ancora significativamente inferiore. Rispetto al 2008 si contano complessivamente 876 mila occupati a tempo pieno in meno e un milione di occupati part-time in più. Sono aumentati in particolare gli occupati in part-time involontario (quasi un milione e mezzo in più rispetto al 2008), il cui peso sul totale dei lavoratori a orario ridotto ha raggiunto nel 2018 il 64,1%. Il lavoro a tempo pieno è comunque tornato a crescere negli ultimi anni (+684 mila unità fra il 2013 e il 2018). L’aumento del part-time è legato prevalentemente alla ricomposizione dell’occupazione per settore di attività economica, con un aumento del peso dei comparti a più alta concentrazione di lavoro a orario ridotto (sanità, servizi alle imprese, alberghi e ristorazione e servizi alle famiglie) e una riduzione dell’incidenza dei settori a maggiore intensità di occupazione a tempo pieno (industria in senso stretto e costruzioni). Analogamente, la dinamica dell’occupazione per professione ha favorito quelle a più alta intensità di lavoro part-time, in particolare le professioni addette al commercio e ai servizi e quelle non qualificate. Le professioni qualificate, dopo le forti perdite subite negli anni della crisi, sono tornate gradualmente a crescere a partire dal 2014 e nel 2018 rappresentano l’83,2% della crescita occupazionale rispetto all’anno precedente, soprattutto nei settori di informazione e comunicazione, servizi alle imprese e industria.

Siamo un Paese che stenta ad uscire dalla crisi e i fattori socio-demografici hanno rivestito – e lo rivestiranno ancor di più tra qualche anno – un ruolo rilevante. La modesta espansione sarebbe supportata solo dalla domanda interna e, in particolare, dai consumi privati. La decelerazione delle esportazioni e importazioni in volume, legata soprattutto per la prima componente a fattori esogeni internazionali, è invece attesa determinare un contributo nullo della domanda estera netta”. Una fase di debolezza destinata a perdurare e dovuta, in parte, anche “fattori socio-demografici”. “A livello mondiale l’Italia contende al Giappone il record di invecchiamento: 165 persone di 65 anni e più ogni 100 giovani con meno di 15 anni per l’Italia e 210 per il Giappone, al 1° gennaio 2017”. “Gli scenari previsivi – si legge ancora nel rapporto – indicano con un’elevata probabilità (78%) che la popolazione residente al 2050 risulterà inferiore a quella odierna, scendendo da 60,4 milioni al 1° gennaio 2019 a 60,3 milioni nel 2030. Negli anni successivi, il calo sarebbe più accentuato (58,2 milioni la popolazione nel 2050), con una perdita complessiva di 2,2 milioni di residenti rispetto ad oggi. La transizione nell’età anziana delle generazioni del baby boom, oggi nella fase adulta della vita, è la principale determinante del futuro invecchiamento della popolazione. La quota di ultrasessantacinquenni sul totale della popolazione potrebbe essere nel 2050 tra i 9 e i 14 punti percentuali superiore rispetto al valore del 2018 (22,6%)”.  “Le conseguenze più rilevanti riguarderanno però la popolazione in età attiva – sottolinea il rapporto Istat – che subirà un’intensa riduzione della forza lavoro potenziale. Nei prossimi anni le coorti in uscita risulteranno numericamente superiori a quelle in ingresso. Nel 2050, la quota dei 15-64enni potrà scendere al 54,2% del totale, circa dieci punti percentuali in meno rispetto a oggi. Si tratta di oltre 6 milioni di persone in meno nella popolazione in età da lavoro. L’Italia sarebbe così tra i pochi paesi al mondo a sperimentare una significativa riduzione della popolazione in età lavorativa”.

Nel primo trimestre 2019, il prodotto interno lordo italiano ha registrato un lieve recupero, condizionato dalla modesta crescita di consumi ed esportazioni. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2019 realizzato dall’ISTAT. Secondo quanto emerge dal rapporto nel 2018, gli investimenti hanno mostrato un miglioramento guidato dalle costruzioni. Dal lato dell’offerta, è mancata la spinta alla crescita del settore dei servizi mentre manifattura, costruzioni e agricoltura sono risultate in aumento.

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