
Nel dibattito elettorale (ma anche in quello degli ultimi anni in generale) si presenta sovente da parte degli avversari dei cosiddetti populisti una argomentazione che, ridotta all’osso, è la seguente: i populismi sono un grave pericolo perché mettono in discussione i principi della democrazia liberale che ispirano l’idea stessa di Unione Europea. E’ vero, se si considera che accennando a tali principi ci si riferisce alla divisione dei poteri, ai diritti e alle libertà individuali (libertà di parola, di associazione, di religione e di proprietà), al giusto processo, al suffragio universale, all’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Si tratta di un insieme di principi di salvaguardia delle libertà, che vanno tutelati in particolare dall’assalto delle forze nazionaliste e razziste. Eppure ci sono, in questo approccio, alcune clamorose mancanze che, messe assieme, fanno una grande rimozione: il tema relativo alla forma di politica economica tipica delle liberaldemocrazie, cioè il liberismo; le responsabilità di tale forma di politica economica nel rapidissimo accrescersi delle forze cosiddette populiste; la vera “cronologia” dell’Europa liberale. Andiamo per ordine.
La forma di politica economica tipica delle liberaldemocrazie è il liberismo, e cioè una teoria che sostiene e promuove libera iniziativa e libero mercato come unica forza motrice del sistema economico e della società, al punto che negli scorsi decenni è progressivamente passata l’idea che l’occidente non sia solo caratterizzato dall’economia di mercato, ma anche dalla società di mercato, una società, cioè, che in quanto tale incorpora, rappresenta e pratica quei principi. Va notato che mentre è impensabile un regime politico liberale senza una forma economica liberista, è invece del tutto plausibile una forma economica liberista senza un regime politico liberale, come per esempio avviene oggi in Polonia. Dunque chi critica i cosiddetti “populisti” esclusivamente in nome della difesa della democrazia liberale limita la possibile forma economica dell’Unione Europea all’applicazione della teoria liberista, più o meno radicale o più o meno temperata da istanze sociali. L’applicazione piena della teoria liberista è alla radice della Grande Crisi avviatasi nel 2007 con la vicenda dei mutui Subprime negli States e sviluppatasi negli successivi nell’intero occidente come una metastasi, i cui effetti sono ancora operanti. La patologia dei tassi di disoccupazione, dell’incredibile incremento dello sfruttamento del lavoro umano, dei bassi salari, dalla mostruosa forbice fra emolumenti dei prestatori d’opera ed emolumenti dei manager, si iscrive sia negli effetti della crisi, sia nella natura storicamente determinata del sistema economico liberista.
Ma veniamo alla “cronologia” dell’Europa liberale: da quando ha preso corpo l’idea di un’Unione Europea esclusivamente liberale ed esclusivamente dominata dall’economia liberista? Dalla caduta del Muro e dalla conseguente scomparsa del blocco dell’est. Prima dell’1989 la grande parte degli Stati europei praticava politiche economiche miste ed esprimeva sistemi politici compositi; in (quasi) tutti i Paesi il ruolo dello Stato in economia era essenziale da molti di vista, a cominciare dal welfare. L’“Europa liberale” era una delle tante propensioni possibili, e si accompagnava, sovente in un mix virtuoso, all’idea di un’Europa sociale, democratica, solidale. Basti pensare alla Costituzione repubblicana che non tratteggia affatto un’Italia “solo” liberale, e considera la Repubblica, e perciò anche lo Stato, strumento fondamentale – per esempio – per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sia chiaro: non si tratta di una negazione dei principi liberali, tutt’altro; si tratta di un accrescimento, per cui – per esempio – non ci si limita a garantire diritti e libertà, ma ci si propone di promuoverli. La libertà dal bisogno o il diritto al lavoro, concetti non necessariamente compresi nella nozione di liberalismo, sono dunque obiettivi che la Costituzione democratica prescrive come bussola delle politiche nazionale. In sostanza la Costituzione disegna una repubblica di democrazia sociale. Né questa è un’idea limitata al territorio del nostro Paese: chiunque legga il Manifesto di Ventotene, universalmente citato dai sostenitori dell’unione Europea, ritroverà un disegno unitario che ha pochissimo a che fare con le pratiche dell’Unione Europea reale degli ultimi trent’anni.
I moderni populismi proliferano, prolificano e pontificano prevalentemente in reazione al fallimento di un ordine economico, unico legittimato, che comanda in occidente e che si fonde con altri fenomeni globali: la – appunto – globalizzazione, e cioè la connessione su scala mondiale di mercati, produzioni, consumi, stili di vita diventati tutti interdipendenti; la rivoluzione digitale, che riguarda l’informatica, l’elettronica, le telecomunicazioni, la multimedialità, e che ha cambiato pressoché tutto (informazione, comunicazione, modi e stili di vita, organizzazione del lavoro, modi di produzione); il fenomeno migratorio che, accompagnando la globalizzazione delle merci e dei capitali, ha reso disponibile su scala internazionale una vastissima forza-lavoro accrescendo la concorrenza fra prestatori d’opera e creando inediti problemi di integrazione sociale e culturale. Tale fenomeno, in mancanza di una politica di governo da parte dell’UE, ha creato diffusi fenomeni di spaesamento, paura, alienazione, impoverimento, sradicamento, sui quali si è costruito gran parte del consenso ai cosiddetti populismi. In Europa e fuori: vedi il caso dell’America di Trump. Da noi, basta guardare il caso di Salvini. Se tutto ciò è vero, ne deriva che, come il mostro di Alien – lo Xenomorfo – nasce da un ospitante corpo umano vivente, così il cancro dei cosiddetti populismi, molti dei quali si manifestano nella forma dei nazionalismi, razzismi, neofascismi, neonazismi, nasce dall’ospitante corpo vivente delle politiche in particolare economiche dell’Unione Europea, di quella UE che si è voluto ridurre alla sola forma “liberaldemocratica”, negando pervicacemente e ciecamente qualsiasi commistione con altre teorie e pratiche sociali, anzi, dichiarando illegittima qualsiasi altra idea che non si rifacesse al mantra del “tutto nel mercato” e del “niente nello Stato”.
Per questo lo scontro con i populismi non può essere retto soltanto dalla pur necessaria difesa dell’idea di un’Europa liberaldemocratica o liberale tout-court, come fanno in molti; c’è in questa difesa un evidente affanno; occorre avanzare una proposta espansiva, che da un lato si richiami al merito reale del messaggio di Ventotene, dall’altro rompa la camicia di Nesso di una visione esclusivamente difensiva, asfittica e perdente di un’UE come un’inestricabile somma di vincoli e di una democrazia autodimezzata, che fa perdere di vista gli interessi dei popoli. Non solo: nonostante i colpi di piccone dati dalla presidenza Trump alle buone relazioni economiche e commerciali col mondo intero, e quindi anche con il partner europeo, va avanti una politica di allineamento con gli States e di contrapposizione alla Russia e, per molti aspetti, alla Cina, smarrendo via via la prospettiva di un’autonoma potenza europea. Va infine ricordato che, in particolare negli ultimi trent’anni, a contrappunto della “crescita” dell’idea e della pratica dell’Europa esclusivamente liberale, diminuiva progressivamente il collante antifascista e antinazista che era alla base della sua stessa nascita e della sua ragion d’essere: l’Unione Europea sorge infatti dalla sconfitta del disegno nazista dell’Europa-fortezza. E’ vero, negli ultimi tempi c’è stata una meritoria, ancorché tardiva, resipiscenza, come la risoluzione del parlamento europeo del 25 ottobre 2018 sull’aumento della violenza neofascista; ma per troppo tempo si è sopportata una crescente presenza dichiaratamente neonazista e neofascista, come per esempio nel caso ungherese del partito Jobbik; in Ucraina, che non fa parte della UE, si è giunti al punto di sostenere governi al cui interno erano presenti forze politiche (e paramilitari) neonaziste come Svoboda o Pravij Sector; più in generale nei Paesi dell’est europeo oggi aderenti alla Ue sono presenti forze neonaziste e collaborazioniste sempre più invadenti, nel sostanziale silenzio delle istituzioni continentali.
L’unica possibilità di rompere la crescente egemonia della destra radicale in Europa è quella di costruire un fronte unico di istituzioni, forze politiche, organizzazioni sociali. Infatti, se si rafforzassero considerevolmente le forze nazionaliste, razziste, neofasciste in Europa, con tutta probabilità l’intero meccanismo della UE ne uscirebbe inceppato e inerte; se addirittura tali forze vincessero, sarebbe in discussione la democrazia politica e sociale oscurata da mille possibilità di svolte autoritarie o di stato d’eccezione, svanirebbe – quanto meno per un lungo periodo – il sogno di un’Europa unita laica, pacifica e solidale, si riaffaccerebbero gli spettri della guerra che – non dimentichiamolo – è stata sempre il portato dei nazionalismi europei, si diffonderebbe in modo esponenziale il virus del razzismo, vecchio e nuovo, nei confronti di qualsiasi comunità ritenuta “diversa”: la storia contemporanea ci insegna che quando lo Stato diventa il propulsore di politiche razziste, comunque le si voglia travestire, prima si negano i diritti civili e sociali, poi si nega il diritto alla vita. Abbiamo già visto il film. Era un horror.
Per questo la propaganda di chi chiede più forza solo “all’Europa liberale” contro la deriva populista è parziale, perché limita l’estensione del campo antifascista ignorando aprioristicamente tutte le forze che non si riconoscono sic et simpliciter nell’idea liberale dell’Europa, e che non negano affatto i lati positivi della concezione liberale ma, pur ritenendoli necessari, li considerano insufficienti a superare le ragioni intrinseche del modello economico dominante; ed è deficitaria anche perché ignora, o li considera solo come futuri eventuali atti volontaristici, quei cambiamenti sostanziali di politiche (sociale, economica, monetaria, internazionale) senza i quali è davvero difficile immaginare il declino delle talpe nazionaliste, oscurantiste, razziste, neonaziste che hanno già – e quanto! – scavato nelle fondamenta di un’idea sociale e solidale dell’unità europea.
Dunque il voto alle Europee contro ogni nazionalismo, fascismo, razzismo è anche liberale; ma non può ridursi solo a questo. Dev’essere un voto antifascista. Perché l’antifascismo è un comune sentire, è la casa plurale del pensiero liberale, cattolico, socialista, ambientalista, comunista, o semplicemente di buon senso. Oggi la posta è tutto. Ecco perché questo è il momento della inclusione, senza “se” e senza “ma”.
*Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente nazionale ANPI
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