
Cinque mesi dietro le barricate, senza mai dare l’impressione di apprezzarsi reciprocamente davvero. Oltre centocinquanta giorni passati tra decine di vertici a Palazzo Chigi, con momenti drammatici che avrebbero potuto sfociare in rotture clamorose. Ora però, alla vigilia del giudizio dell’Ue sulla manovra italiana, è scoppiato il sereno tra Luigi e Giovanni. Luigi è Di Maio, vicepremier e capo politico del M5S, mentre il secondo è Tria, 70enne docente di Tor Vergata dal 1 giugno titolare di via XX Settembre. “Devo fare i complimenti al ministro, sta portando avanti questa legge di Bilancio con grande convinzione e sta combattendo come un leone”, è la frase quasi spiazzante che il ministro di Sviluppo economico e Lavoro pronuncia davanti ai cronisti 24 ore dopo il blitz del prof all’Eurogruppo. In effetti, davanti ai big di Bruxelles, la difesa della manovra italiana è stata decisa, perché il 2,4% di deficit “non influenza lo spread”. Sembra passato un secolo, perché a fine settembre proprio su quel famoso ‘numerino’ Tria era stato ad un passo dal dimettersi, stritolato dalla morsa M5S-Lega e costretto a cedere per votare una crisi di governo.
Cosa è davvero cambiato nel rapporto tra Di Maio e Tria, dopo mesi di litigi e sospetti?
Ma cosa è cambiato davvero nei rapporti M5S-MEF? Il colpevole sembra solo uno: lo spread. Nelle ultime settimane, come hanno ribadito vari osservatori internazionali, le frizioni all’interno al governo hanno preoccupato i mercati, con con il differenziale Btp-Bund schizzato oltre 320 punti base. Una febbre continua per la solidità del nostro Paese, che a lungo andare può mettere a rischio anche il mondo del credito. Ecco allora che il mondo pentastellato ha deciso per il momento di cambiare marcia: basta picconate a Tria, ma anzi parole ufficiali di sostegno per convincere della bontà dell’azione di governo non tanto l’Ue, ma soprattuto gli investitori. Perché, come ha ribadito Di Maio, “Conte e Tria stanno facendo un ottimo lavoro di tentativo di mediazione”. Bisogna dire, a onore del vero, che il rapporto tra la principale forza di governo e il professore romano non è nato tra i migliori auspici. Pochi giorni prima della formazione del governo Conte, Tria non aveva nemmeno tanto velatamente criticato il contratto Lega-M5s proprio per la sua vaghezza in termini di coperture. Tanto che in prima battuta anche Salvini puntava su Paolo Savona come titolare del’Economia, prima del ‘niet’ di Sergio Mattarella. Proprio il Quirinale è stato uno dei primi sostenitori dell’attuale ministro, convinto che la sua pacatezza e le sue teorie econometriche più vicine al pensiero di Padoan potessero essere un buon cuscinetto davanti al movimentismo giallo-verde. I primi scricchiolii ci sono stati subito, quando Tria aveva posto dei dubbi sulla fattibilità del combinato reddito-cittadinanza-quota100-pace fiscale. Di Maio aveva risposto in maniera decisa: “Trovi le risorse”. Poi il M5S si era scagliato contro i tecnici del Mef, colpevoli di ‘frenare’ il cambiamento; nel mirino era finito anche il capo di gabinetto del ministero dell’Economia, Roberto Garofoli, per un emendamento sui fondi alla Croce Rossa, misura inserita nel testo della Legge di Bilancio senza che Conte, Di Maio e Salvini ne sapessero niente. Norma e polemica furente erano rientrati, le stilettate tra le due parti no. Ora che la tempesta è alle porte, è opportuno cambiare: è meglio per tutti chiudersi a ‘testuggine’, come direbbe il Di Maio storico delle strategie militari.
Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede bocciato sull’Anticorruzione dalle opposizioni alla Camera (e forse da qualche collega pentastellato). La Lega non lo applaude
L’intervento del ministro “meriterebbe un 12 all’esame” secondo Paolo Sisto (Fi) mentre per Franco Vazio (Pd) il Guardasigilli a Giurisprudenza “non prenderebbe neanche la sufficienza”. Da sinistra e da destra, i due maggiori partiti di minoranza attaccano il M5S, in particolare dopo che Bonafede intima dagli scranni di Montecitorio di non arrogarsi “il diritto di avere la voce delle vittime che vanno nei tribunali, non dovete strumentalizzare o storpiare quella voce”. Alla bagarre scatenata da Pd e Forza Italia corrisponde il gelo con cui le parole del ministro vengono accolte dai banchi della Lega che, a detta delle opposizioni, non applaudono. A parte questa prova di protesta ‘muta’, fra i due soci di maggioranza va in scena il tentativo di trovare una convergenza. La Lega ritira infatti gli otto emendamenti al disegno di legge, inclusi quelli sulla prescrizione e sulle sanzioni ai partiti e ai movimenti che non rispettano le norme sulla trasparenza e la tracciabilità dei contributi. Ancora non c’è accordo però nella maggioranza proprio sulla norma che prevede di rendere pubblici i nomi di chi fa donazioni ai partiti, ma la trattativa è aperta. Il tema, dopo la giornata di venerdì scorso segnata dall’impasse, era stato rimandato all’aula, in attesa che i vertici dei due partiti di governo trovassero la quadra. La Lega vorrebbe alzare a 2000 euro la soglia minima delle donazioni ai partiti, oltre la quale è obbligatorio pubblicare il nome di chi ha effettuato il versamento, mentre il M5S vorrebbe lasciare la soglia a 500 come da testo originale. Il testo del ddl Anticorruzione deve essere approvato così com’è, l’Aula della Camera deve dare il via libera allo stesso testo licenziato dalle commissioni, salvo piccole modifiche ma assolutamente concordate. E’ la linea dei 5 stelle, dopo che il governo è stato battuto su un emendamento a scrutinio segreto, che modifica il ddl nella parte relativa al reato di peculato, rendendolo più ‘morbido’. Linea messa nero su bianco dal capogruppo pentastellato, Francesco d’Uva: “Va trovata una soluzione, il ddl va approvato senza modifiche oppure possiamo anche andare tutti a casa”. Meno catastrofista la linea dell’alleato di governo, con Matteo Salvini che derubrica quanto accaduto in Aula in “incidente di percorso” e garantisce: “Ora acceleriamo e approviamo il ddl Anticorruzione”. Al momento, però, spiegano fonti di maggioranza, non c’è una soluzione condivisa sul tavolo. E spunta l’ipotesi della fiducia, con un maxiemendamento che sostituisca interamente il testo all’esame dell’Assemblea di Montecitorio, riportandolo al contenuto originario, ovvero senza la norma modificata dall’emendamento a prima firma Catello Vitiello, ex M5s poi espulso perché massone e quindi passato al Misto. E se governo e maggioranza dovessero porre la questione di fiducia sul ddl Anticorruzione rischia di slittare il decreto Sicurezza, che deve approdare in Aula venerdì. Insomma, M5s e Lega si potrebbero trovare di fronte a una scelta di priorità, e mentre il decreto Sicurezza è caro alla Lega, il ddl Anticorruzione lo è per i 5 stelle
Intanto nel Pd si avvia la fase congressuale. Gianni Dal Moro presidente della commissione congresso. Le spine del tesseramento
La commissione congresso ha eletto, com’era previsto, Gianni Dal Moro presidente e ha definito il cronoprogramma dei lavori. La commissione tornerà a riunirsi con ritmo quotidiano da giovedì fino a lunedì prossimo per affrontare alcuni nodi irrisolti come il tesseramento e i congressi locali. La direzione dovrebbe invece essere convocata per martedì o mercoledì della prossima settimana e in quell’occasione verrà redatto il regolamento e sarà affrontata anche la questione relativa alla data delle primarie. La commissione congresso Dem deciderà come e quando aprire il tesseramento, valutando tutte le proposte, inclusa quella delle tessere online, come vorrebbero i due candidati Matteo Richetti e Francesco Boccia. Si pronuncerà poi sui modi in cui verrà eletto il prossimo segretario. L’ultima proposta è quella della senatrice Valeria Fedeli, vale a dire che chi prende più voti vince, indipendentemente dal raggiungimento del 51% delle preferenze. Anche se Marco Minniti e Nicola Zingaretti sono convinti che la soglia sarà superata. Il metodo che si è dato la commissione è quello dall’accordo politico. Nel caso non si trovi accordo politico sulle singole proposte, verrà applicato lo Statuto. Giovedì 22 novembre si terrà la prima riunione operativa della commissione con l’obiettivo di giungere al più presto alla definizione del regolamento da sottoporre alla direzione nazionale nei primi giorni della settimana prossima.
Le prime mosse dei candidati e le prime adesioni “forti”
Oggi Maurizio Martina, che ad ore lancerà la candidatura, ha incontrato i parlamentari che lo sosterranno, come Graziano Delrio, Tommaso Nannicini, Deborah Serracchiani, Carla Cantone, Andrea De Maria, Chiara Gribaudo e Luca Rizzo Nervo. Più avanti è la candidatura di Marco Minniti alle prese con una trattativa con i renziani pronti a sostenerlo. Le primarie, infatti, prevedono che assieme al segretario ai gazebo si votino i membri dell’Assemblea nazionale. Ciascun candidato può essere sostenuto da una sola o da più liste e Minniti ha chiesto ai renziani che si formi un’unica lista, mentre questi ne chiedevano più d’una, così da tenere unita la propria area. Visto il niet dell’ex ministro dell’Interno ora si tratta per un ruolo certo di Luca Lotti nella formazione della lista unica. Affila le armi anche l’outsider, il trentenne Dario Corallo, che prende spunto dal dibattito sull’ipotesi che nessuno prenda il 51% alle primarie: dipende dal fatto che gli altri candidati non hanno mozioni che li distinguono l’uno dall’altro e i loro “tatticismi” trasformano il congresso in un “concorso di bellezza”, sulla scelta del leader e delle correnti che lo appoggeranno, ma non della linea politica. In arrivo dunque una mozione “in vera discontinuità con il passato” non solo sui contenuti ma anche rispetto ai gruppi dirigenti.
Mdp: “manovra iniqua, furba e inefficace. Mobilitazioni ovunque contro il governo”
La manovra del governo è “furba, iniqua e inefficace”. Articolo Uno-Liberi e Uguali annuncia una “mobilitazione in tutte le principali città nelle prossime 3 settimane, anche davanti alle Università e le scuole. Saremo in piazza per criticare la legge di bilancio e per promuovere la nostra contromanovra”, ha annunciato il coordinatore nazionale Roberto Speranza nel corso di una conferenza stampa alla Camera. Arturo Scotto attacca: “Esiste una politica diversa dal condono e dalla flat tax. Gli investimenti di cui parlano Lega e M5S più che Keynes ricordano Cirino Pomicino. La loro manovra è furba, iniqua e inefficiente. La nostra è onesta, giusta e necessaria”. LeU punta su un piano nazionale per il lavoro, l’abolizione del superticket, politiche green, una tassazione progressiva e un prelievo sui grandi patrimoni. “Per aggredire le disuguaglianze c’è bisogno di politiche redistributive. Sarebbe meglio chiamarle con il nome giusto: patrimoniale sulle grandi ricchezze. Andando a scovare le risorse innanzitutto là dove sfuggono: nelle grandi corporation che viaggiano sul web, fanno affari in Italia e pagano le tasse altrove. Sfidiamo il governo dei condoni su questo”, dichiara a sua volta il senatore Francesco Laforgia.
- Amministrative 2021, la sinistra per Roma. Ne parliamo con Giuseppe Libutti, candidato per la lista Sinistra civica ecologista - 27 Settembre 2021
- Riprendono le pubblicazioni di Jobsnews.it. Con alcune modifiche sostanziali - 31 Gennaio 2021
- Coronavirus. 7 ottobre. 3678 nuovi casi, 31 decessi, 337 in intensiva. Il nuovo Dpcm proroga lo stato d’emergenza al 31 gennaio 2021 e impone la mascherina all’aperto - 7 Ottobre 2020