Identità personale e sinistra negli Usa. Il libro di Mark Lilla, “L’identità non è di sinistra”, Marsilio

Identità personale e sinistra negli Usa. Il libro di Mark Lilla, “L’identità non è di sinistra”, Marsilio

È sempre un’esperienza interessante leggere i libri dei politologi statunitensi. E lo è anche nel caso del pamphlet di Mark Lilla intitolato L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica (Marsilio, Venezia, 2018, 137 pagg., 12,00 euro). Uno dei motivi di interesse per il lettore europeo è la differenza abissale tra il discorso politico sviluppato oltreoceano e quello che caratterizza il Vecchio continente. Naturalmente parliamo di un europeo non ancora completamente americanizzato e dunque dotato di un minimo di senso critico, direi anzi di senso della realtà. Perché è proprio la realtà delle cose a vacillare leggendo Lilla. Ci sembra che più che in altri intellettuali progressisti statunitensi il ragionare di Lilla permetta di toccare con mano la crisi del reale di cui è investito il dibattito politico pubblico all’interno del Partito democratico statunitense e forse dell’intero sistema politico di quella nazione. Ma andiamo con ordine. Il titolo del libro non corrisponde a quello originale (The Once And Future Liberal) e tuttavia rende bene il senso del ragionamento di Lilla. Secondo il quale il Pd statunitense si è fatto attirare nella trappola della politica identitaria, ossia nella tutela di minoranze di ogni tipo. A riprova nell’home page del sito Web Pd non c’è traccia di un documento programmatico su grandi questioni politiche. Presenta invece una sfilza di link che conducono a ben diciassette gruppi dalle specifiche identità: donne, ispanici, comunità LGBT, nativi americani, afro-americani e così via. Al contrario la home page del sito Web del Partito repubblicano offre per prima cosa ai suoi visitatori un documento politico di ampio respiro intitolato “I principi del rinnovamento americano”.

Il Partito democratico Usa non ha messo in discussione i principi di fondo del reaganismo

In altre parole, il Partito democratico ha trasformato la propria cultura politica perdendo di vista il “modello Roosevelt”, che chiamava a raccolta gli statunitensi per un’impresa collettiva e le cui di parole d’ordine erano “solidarietà, opportunità e senso del dovere”, per concentrare la propria iniziativa politica sull’identità personale (i gay, i neri, le donne ecc.). Da un lato il risultato è stato lo smarrimento dei criteri di giustizia solidarietà e, dall’altro, l’adesione a un concezione atomistica della società finendo così per rafforzare il “modello Reagan”. Modello vincente ancor oggi e che fa appello all’interesse personale e allo Stato minimo: “l’ossessione per l’identità non ha messo in discussione il principio fondamentale del reaganismo, cioè l’individualismo, ma lo ha invece rinforzato”. Per Lilla occorre che i liberal invertano la rotta altrimenti dopo l’ascesa di Donald Trump rischiano di diventare secondari nel panorama politico USA.

Arrivati a questo punto della riflessione di Lilla conviene davvero lasciare la parola all’intellettuale newyorkese affinché il lettore europeo possa valutare la sua presa di distanza dal reale. Per esempio quando ci si imbatte in affermazioni del tipo “La politica prende il potere per difendere la verità” sorge spontanea la domanda: chi è il pusher di Lilla? Naturalmente scherziamo e affermazioni senza costrutto come quella appena citata sono da prendere comunque sul serio perché fanno parte di una cultura politica che ha fatto dello smarrimento della realtà un punto di forza. Punto di forza che ha la capacità di coinvolgere fette consistenti di elettorato e di far vincere elezioni. Ma restiamo al tema oggetto del pamphlet: cosa debbono fare i progressisti Usa per recuperare il terreno perduto? Lilla: “Quello che cerco di sostenere è che per riconquistare l’immaginario americano e ridiventare una forza dominante in tutto il paese [i liberal] devono offrire la visione di un destino comune fondato su qualcosa che gli americani di ogni estrazione davvero condividono”.

Un nuovo sogno americano per galvanizzare gli elettori. La capacità di mobilitazione delle masse

Insomma bisogna mettere in piedi un nuovo sogno americano per galvanizzare gli elettori. Ma per carità “Questo non significa ritornare al New Deal”. Del modello Roosevelt interessa solo la capacità di mobilitazione delle masse che si recano a votare sulla base di parole d’ordine tanto astratte quanto immaginifiche. Tant’è che ripetutamente Lilla fa riferimento all’immaginario del popolo statunitense come l’oggetto da conquistare da parte dei democratici per tornare al potere. La cui presa non deve avvenire in virtù di una politica economica differente da quella di Clinton o Obama, e che ha causato la crisi dei democratici perché prona agli interessi del capitale finanziario, di quello digitale e delle multinazionali. Il liberismo a stelle e strisce non si tocca. Ma se non si toccano gli interessi economici dei poteri forti non si cambia niente, se non nell’immaginazione per l’appunto. Così come non si tocca il sistema politico statunitense. Peccato che sia fondato su due partiti che si reggono l’uno sull’altro e che hanno creato un sistema politico chiuso che impedisce qualsiasi sostanziale cambiamento di un modello sociale fondato sul primato del potere economico di tipo capitalistico. Il cambiamento possibile è solo nell’interesse delle classi dominanti. Alle altre è lasciata la più completa libertà di sognare.

Di sogno in sogno oggi negli USA la povertà è dilagante e si calcola che le persone in stato di indigenza siano oltre cento milioni (1/3 della popolazione complessiva), peraltro letteralmente perseguitate da un sistema giuridico che si accanisce contro di loro (in proposito vedi, Elisabetta Grande, “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017). E la mitica classe media? Indebitata fino al collo, così la propria esistenza è nelle mani delle banche. A godere materialmente del sogno americano resta solo l’élite. Di queste situazioni naturalmente nel libro di Lilla non c’è traccia. D’altra parte si tratta della distribuzione della ricchezza, cioè della realtà. E non è questo l’oggetto del suo interesse. Va detto però che Lilla è un intellettuale coraggioso per gli standard statunitensi.

Molte citazioni di Marx e  il comunismo sogno da realizzare. I dem Usa non hanno più un orizzonte

Ancor oggi cita Marx. Meglio, lo nomina semplicemente senza usarne gli strumenti, il che, dati i tempi che corrono, oltreoceano è già tanto. A un certo punto Lilla sostiene che Marx aveva ragione su un punto: “le condizioni materiali aiutano a determinare in ogni momento storico quale idea politica trovi campo”. Il lettore si aspetta che finalmente si parli del lavoro, tema decisivo per la politica. Niente, non una parola. Il lavoro è uno dei grandi assenti nella riflessione di Lilla. Ma allora perché nominare Marx in diversi passaggi del pamphlet? Perché i marxisti avevano un sogno da realizzare: il comunismo. I democratici statunitensi invece non hanno più un orizzonte a cui guardare né futuro da immaginare. Trovare una nuova mission, questo è il problema. C’è poi un risvolto personale nel vezzo di nominare Marx: conferisce a Lilla quell’aria trasgressiva rincorsa da parecchi intellettuali liberal. Giusto l’aria, delle questioni materiali si occupano altri.

Il sistema politico chiuso allestito dal Partito democratico e dal Partito repubblicano negli Usa viene chiamato democrazia. E Lilla non lo mette minimamente in discussione. Anzi il testo è impregnato di un nazionalismo vecchio stampo tipico dell’atteggiamento messianico che negli Stati Uniti ha funzionato egregiamente sia in politica interna che estera. A proposito di quest’ultima è un’altra assenza molto significativa nel libro di Lilla. Quando l’intellettuale newyorkese parla di far tornare grande l’America, sul piano della politica estera cosa significa? Più sanzioni? Più bombe? Più torture? Più colpi di stato? Più spionaggio? Più Hollywood? O meno di tutto ciò? Non si sa. Lilla non se ne occupa trascurando un piccolo dettaglio: il suo paese è un impero. Peraltro un impero in guerra permanente col mondo intero e che non vuole alleati ma sudditi. E allora, sempre mettendo da parte la realtà, cosa debbono fare i democratici per far sognare gli elettori americani? Tornare a una politica fondata sul senso del noi. Cosa vuol dire? Di concreto niente. Di astratto tanto. E tanta è la retorica contro l’edonismo reaganiano con cui Lilla ci intrattiene pagina dopo pagina strapazzando i democratici che non lo hanno combattuto.

Il contesto politico egemonizzato dalla cultura della destra tradizionale

E qui giungiamo a una questione cruciale. Chi sarà il soggetto collettivo portatore di questo vago senso del noi? Lilla è preciso: un nuovo cittadino, che corrisponde a un nuovo americano, che a sua volta corrisponde al solito individuo proprietario solo un po’ meno egoista. Tutto qua? Sembra davvero poco. Ma va tenuto conto del contesto politico in cui Lilla si muove. E che da molto tempo negli Usa è egemonizzato dalla cultura politica della destra tradizionale. Anch’essa in crisi sia ben chiaro. E l’elezione di Trump sta lì a dimostrarlo. Ma come può il Partito democratico ritornare a essere protagonista? Dando “priorità alla cittadinanza sull’identità personale o di gruppo”. In che modo si realizza tale priorità? Offrendo agli elettori una nuova vision come direbbe un esperto di marketing politico. Per chiudere, apprezziamo lo sforzo dell’intellettuale newyorkese perché il suo pamphlet è allo stesso tempo utile e inutile. E’ utile per comprendere come nella società statunitense cambi tutto per non cambiare nulla ed è inutile sia alla democrazia sia alla sinistra, istanze che negli Usa latitano parecchio.

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