
Nessuna sorpresa al Senato per il primo voto di fiducia. Il governo guidato da Giuseppe Conte incassa i previsti 171 sì, 4 voti in più rispetto ai numeri della maggioranza (167 senatori), e si attesta su una soglia di ‘sicurezza’ di 10 voti in più rispetto alla maggioranza assoluta, che a palazzo Madama è fissata a quota 161. I voti contrari sono 117, gli astenuti 25. Ai 58 voti favorevoli della Lega e 109 del Movimento 5 stelle si aggiungono infatti i già previsti 2 voti dei senatori eletti all’estero del Maie, Ricardo Antonio Merlo e Adriano Cario, e i 2 voti degli ex grillini Maurizio Buccarella e Carlo Martelli. I contrari, esponenti di Pd e Forza Italia, oltre ai quattro senatori del Misto di Liberi e Uguali, e due del gruppo Svp-Patt-Uv, Gianclaudio Bressa e Pierferdinando Casini. Astenuti i senatori di Fratelli d’Italia e i rimanenti del gruppo Svp-Patt-Uv. Assenti Giacomo Caliendo, Urania Giulia Rosina Papatheu e Paolo Romani di FI, e Renzo Piano. In congedo il presidente emerito Giorgio Napolitano e Carlo Rubbia.
Incassata la fiducia al Senato, il governo Conte si appresta ad ottenere mercoledì il via libera anche della Camera. Anche a Montecitorio l’esito del voto è atteso in serata. Alla Camera l’esecutivo giallo-verde ha una maggioranza schiacciante, con 346 voti (222 deputati M5s e 124 leghisti). Quindi, 30 voti di scarto rispetto alla maggioranza assoluta di 316. Ma come già successo a palazzo Madama, anche nell’atro ramo del Parlamento i voti a favore potrebbero aumentare di alcune unità, sempre grazie ai deputati ex M5s e alcune componenti del gruppo Misto. FdI – come al Senato – si asterrà, mentre Forza Italia, Leu e Pd voteranno contro.
Il deludente discorso del professor Conte al Senato
Qualcuno si è peritato di prendergli il tempo. Quanto ha parlato Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio, nel suo primo discorso al Parlamento, nell’Aula del Senato? Un’ora, undici minuti e undici secondi. E se non è record poco ci manca. Ovviamente: bene, benissimo per la maggioranza; male per una parte dell’opposizione, addirittura malissimo per un’altra parte ancora. Non è stato algido, il premier, anche se a tratti è andato oltre e ha regalato la sensazione di pestare un po’ troppo sui toni. Enfasi da prestazione? Recita a soggetto? In fondo, nessuno sa davvero cosa pensi sui temi caldi della campagna elettorale, pane duro per la battaglia politica e per quasi 90 giorni di trattative. Non si è mai esposto, se non quando è stato investito dell’incarico di formare l’esecutivo. Dubbi? Sì, dubbi. Non a caso, Renzi l’ha bollato come ‘collega’, cioè un presidente non eletto, proprio come lui.
Conte è stato definito sovranista in doppiopetto, oppure megafono dei due dioscuri, Castore e Polluce, seduti al suo fianco, Luigi Di Maio a destra, Matteo Salvini a sinistra. E’ andato meglio nel discorso dell’ora di pranzo che nelle risposte consegnate ai senatori a tarda sera: ha mantenuto un aplomb quasi british allorché è finito nel mirino di chi non ce l’ha con lui ma con coloro i quali lo hanno scelto per stare lì, nella stanza dei bottoni dell’Italia che desidera ripartire. E pure in fretta. Ha citato Dostoevskij, Conte, e qualcuno (il pentastellato Morra) ha subito sottolineato il profilo diverso rispetto a chi, nel giorno dell’insediamento, aveva scomodato i Jalisse, il duo che vinse un lontano Sanremo con ‘Fiumi di parole’. Perdoni, senatore, ma la sensazione è che siano comunque tutte citazioni retoriche e insignificanti. Conte ha di fatto riepilogato il contratto di governo siglato da Di Maio e Salvini, a “sua insaputa”, ed ha letteralmente bypassato i temi caldissimi sul tavolo, nulla sull’Euro, nulla sulla scuola, l’università, la cultura, nulla sulle ragioni delle profonde disuguaglianze che dividono nord e sud del Paese. Solo un accenno, e neppure troppo articolato, sul cosiddetto “patto sociale”, di cui davvero non se ne conoscono gli obiettivi né le finalità, se non all’interno di quel provvedimento assistenzialistico che sarà il reddito di cittadinanza, bilanciato però dalla Flat tax, che premierà i ricchi. Così si accontentano tutti, apparentemente.
Le motivazioni critiche del no a Conte di Leu nel discorso di Loredana De Petris. Conte come il Gattopardo, cambiare tutto per non cambiare nulla
“Nel suo discorso lungo e puntiglioso il presidente Conte ha cercato di indorare i punti più critici del programma di governo, come le politiche dell’immigrazione e la sterzata securitaria. Ma è inutile provare a minimizzare misure che rischiano di spingere drasticamente indietro la civiltà democratica del nostro Paese. La vera faccia di questo governo è quella di Matteo Salvini, dei suoi proclami xenofobi e dei suoi applausi a Orban”, commenta la senatrice di LEU Loredana De Petris, presidente del Gruppo Misto. “Conte – prosegue la presidente De Petris – si è limitato a elencare i punti del cosiddetto ‘contratto’, addirittura rivendicando la sua assoluta mancanza di autonomia dai soci contraenti che lo hanno insediato. Sul come e sul quando attuare i mirabolanti obiettivi che ha enunciato, però, non ha saputo dire una parola”. Infine, ha detto De Petris, “cambiare si deve, cambiare si può, ma troppe cose nel contratto e nel suo discorso ci fanno pensare all’inveterata abitudine di cambiare tutto per non cambiare nulla. Per questo non crediamo al vostro cambiamento e voteremo no alla fiducia”.
Pietro Grasso: “molte delle vostre promesse rimarranno tali”
“Le intenzioni di questo nuovo Governo, e la sua sostanza politica, erano già ampiamente note prima del suo intervento, presidente Conte, anche perché non ha fornito all’Aula alcuna novità, né sui tempi né sulle risorse con le quali intende trasformare in atti concreti quella che rimane una dichiarazione di intenti”, afferma Pietro Grasso, intervenendo in aula al Senato nel corso del dibattito sulla fiducia. L’idea di Paese di M5s e Lega “ci vedrà – qui in Parlamento e fuori – convintamente all’opposizione. Avete iniziato male. Malissimo”, attacca. “Sappiamo già che di fronte a un contratto che è un libro dei sogni inizierete a dare la colpa a chi vi ha preceduto, ai vincoli internazionali, ai vostri alleati di governo, a noi dell’opposizione, al destino, al meteo, alle cavallette. Noi siamo certi che molte delle vostre promesse rimarranno tali: di alcune lo speriamo e faremo in modo che non si realizzeranno mai”. Grasso conclude: “unica pacchia ad essere finita è la vostra, ora dovrete sostituire le facili dirette Facebook e il conto dei like con atti di governo”, conclude.
La senatrice a vita Liliana Segre: “mi opporrò a una democrazia sporcata da leggi speciali nei confronti delle popolazioni nomadi”
“Non posso che rivolgere un ringraziamento al Presidente Mattarella per aver deciso di ricordare l’80/esimo anniversario delle leggi razziali facendo una scelta sorprendente e nominando senatrice a vita una vecchia signora che porta sul braccio il numero di Auschwitz”. Lo ha detto in Aula al Senato la senatrice a vita Liliana Segre nel corso di un intervento che ha suscitato lunghi applausi e una standing ovation nell’emiciclo. Segre ricorda “l’umiliazione” di quanti vennero esclusi dalla società in tempi che prepararono ” la shoah italiana, che fu uno dei crimini del fascismo italiano”. “Si dovrebbe dare la parola quei tanti che non sono tornati dai campi di sterminio, quelli che non hanno tomba, che sono cenere nel vento: salvarli dall’oblio non è solo un debito storico nei loro confronti ma serve ad aiutare gli italiani a reagire contro l’indifferenza, a non anestetizzare le coscienze e ad essere più vigili nelle responsabilità verso gli altri”. E, a voler stabilire un parallelismo tra gli ultimi di ieri e di oggi, Segre ricorda “rom e sinti, gente che nei campi di sterminio inizialmente invidiavamo perché nelle loro baracche stavano con tutta la famiglia. Per questo mi rifiuto di pensare che oggi la nostra società democratica possa essere sporcata da leggi speciali nei confronti delle popolazioni nomadi”. Il riferimento è all’ideale battaglia della Lega contro i campi nomadi con la ‘ruspa’ più volte evocata dal segretario Matteo Salvini. “Se così sarà, mi opporrò”, sottolinea ancora Segre.
E Matteo Renzi ruba la scena ai senatori del Pd
Nel martedì di Conte e della fiducia al nuovo governo, delle chiacchiere da emiciclo e degli spettegolezzi da Transatlantico, Renzi è riuscito a riappropriarsi del suo personaggio e – probabilmente – del Partito Democratico. Nessuno gli ha preso il tempo, no, però tutti hanno teso le orecchie per non perdersi un sospiro dell’ex segretario, ironico e chirurgico, esondante e sferzante. Renzi più di qualsiasi altro sembra incarnare l’opposizione all’esecutivo giallo-verde; Renzi che non è un semplice senatore di Scandicci ma, gradito o sgradito, resta il punto di riferimento del mondo che ruota ancora attorno al Pd. Ha un passo diverso in confronto agli altri, che vorrebbero ma non possono. Non per cattiva volontà, solo perché non ce la fanno. Matteo si è preso la scena e l’ha riconsegnata dopo un quarto d’ora, ha definito il perimetro del suo opporsi e piantato alcuni paletti all’interno del Pd. Con la forza e con quel briciolo di arroganza che insieme incute rispetto e antipatia.
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