Aldo Pirone. Sì, bisogna ripartire dalle “case del popolo” affinché torni a vivere una sinistra, di massa, degna del suo passato

Aldo Pirone. Sì, bisogna ripartire dalle “case del popolo” affinché torni a vivere una sinistra, di massa, degna del suo passato

Ormai è diventato un mantra recitato in tutte le salse: bisogna tornare fra il popolo, nelle periferie urbane e sociali, fra i sofferenti, i poveri, gli sfruttati. A parte Renzi e i renziani che continuano la loro “circolazione extracorporea” nel PD tenendolo, però, in stand by, a sinistra tutti ripetono le stesse intenzioni. Compresi quelli di LeU che pensavano che bastasse scindersi dal PD e trovare un leader istituzionale rispettabile come Grasso perché si aprissero verdi praterie elettorali a sinistra. Il fatto è che il solco fra la base sociale e i suoi rappresentanti a sinistra si era aperto da tempo. Si è trattato di un lungo addio, svoltosi in vari modi e con diverse tappe che hanno investito i diversi gradi, per dirla con Gramsci, delle sovrastrutture culturali, ideali e, alla fine, politiche della sinistra. Nel frattempo la stessa base sociale subiva i cambiamenti indotti dalla rivoluzione conservatrice neoliberista, con il lavoro che diveniva sempre più precario, spezzettato, atomizzato e diritti sempre più aleatori, senza trovare risposta alle esigenze di protezione da un capitalismo tornato selvaggio nelle sue conseguenze sociali.

Il valore delle memorie delle lotte collettive e solidaristiche, sindacali e politiche

 Tutto ciò mentre a calcare la scena socioeconomica erano nuove generazioni che non portavano con sé le memorie delle lotte collettive e solidaristiche, sindacali e politiche, degli anziani protagonisti del “trentennio glorioso”. Protagonisti dentro un blocco sociale e politico di tipo fordista che la rivoluzione tecnologica, con la scomparsa della grande fabbrica operaia, aveva avviato al pensionamento in gran parte anticipato. Adesso tutti, o quasi, dirigenti politici, giornalisti, intellettuali di vario genere, a dire che la sinistra storica i cambiamenti non li ha saputi vedere, comprendere, interpretare. Sebbene proprio l’innovazione, il cambiamento, la discontinuità, siano stati le sue bandiere. Strani innovatori questi leader della sinistra post comunista, da Veltroni a D’Alema, da Bersani a Fassino. Di quest’ultimo si ricorda ancora il suo grido accorato al Congresso DS del 2001-2002 dove, purtroppo, divenne segretario: “O si cambia o si muore”. E, infatti, ma non solo per demerito suo, ci si è ritrovati stecchiti. Oppure il Renzi che, ultimo della specie degli innovatori, imitando il calcio dell’asino, ironizzava sui sindacati che non trovavano dove inserire il gettone nei moderni smartphone. E tantissimi fra i critici di oggi a battergli le mani, visto che lo statista di Rignano le sue le metteva in faccia alla Camusso e alla Cgil.

Una frattura morale e sociale che gonfiava le vele del M5S

Anche il Presidente emerito Giorgio Napolitano, nel suo non usuale discorso d’ inaugurazione del nuovo Senato, ha rimbrottato Renzi, senza ovviamente nominarlo, per aver passato il tempo a magnificare i risultati dei governi PD, soprattutto il suo, per i risultati economici e sociali in particolare, mentre la frattura sociale del Paese si allargava, crescevano lavoro precario, povertà, disuguaglianze. Avrebbe dovuto aggiungere che anche lui non si era accorto di quel che bolliva nella pentola sociale il cui gorgoglio avevadeterminato, per gran parte, il risultato del referendum del sulla riforma costituzionale nel dicembre 2016. Avrebbe dovuto rammentare che quella frattura sociale e morale che gonfiava le vele del M5S si era già manifestata con un certo boom elettorale nelle elezioni amministrative del 2012. “Di boom ricordo quello degli anni 60, altri non ne vedo”, disse, e ha continuato a non vedere. Per inchiodare Renzi, a un certo punto, si è fatto vivo D’Alema. Il leader della sinistra “innovativa” resosi conto, anche per fatto personale, del baratro verso cui il “bomba” stava conducendo il PD, è ricorso a un’espressione di Gramsci per segnalare la profondità del divorzio in corso tra il partito renziano e il suo elettorato: rottura della “connessione sentimentale” ha sentenziato. Solamente che questa disconnessione era già avvenuta prima di Renzi e aveva già cominciato a manifestarsi nel 2012 durante il governo Monti sostenuto dal PD di Bersani, D’Alema e di tutta la dirigenza piddina ex DS: fu lo scoppio grillino che Napolitano non aveva sentito. Il rapporto fra la sinistra complessivamente intesa e il suo popolo si era già ridotto, per seguire ancora Gramsci, “a rapporto di ordine puramente burocratico, formale”. I dirigenti intellettuali erano già diventati “una casta o un sacerdozio”. Cominciare – almeno cominciare – a ricucire la divaricazione avrebbe dovuto comportare una radicale autocritica e un cambio non di passo ma di strada da parte del rassemblement di forze che si sono trovate alla sinistra del PD.

I limiti di LeU, atteggiamenti politicisti, il lungo addio della sinistra con la propria base

Invece LeU ha mostrato subito gli stessi atteggiamenti politicisti, gli stessi limiti e gli stessi volti di coloro che avevano contribuito, negli anni precedenti, ad avviare il lungo addio della sinistra con la propria base sociale. Sicuramente il risultato elettorale non sarebbe stato granché diverso, perché per far tornare a casa milioni di elettori trasmigrati nel M5s, nell’astensione e perfino nella Lega al centro nord, nelle zone tradizionalmente rosse dell’Emilia, della Liguria, dell’Umbria, della Toscana e della Marche, ci vuole ben più che il tempo e l’impegno di una campagna elettorale, ma almeno avrebbe potuto segnare un punto di ripartenza e non una malinconica fine.

Il fatto è che la sinistra, a differenza di quel che dice D’Alema, non “esiste in natura”. In natura esistono la destra e la spinta verso le sue sponde, soprattutto in un paese con la storia “guicciardiniana” dell’Italia, impastato in larga parte di un anarchismo refrattario alle regole e allo Stato, intento a guardare al proprio “particulare” e alla propria convenienza del momento. Di questo cattivo amalgama presente nelle viscere nazionali, Berlusconi è stato, nell’ultimo quarto di secolo, non a caso, interprete magistrale. In natura, cioè allo stato oggettivo, esistono le contraddizioni e le fratture sociali, e anche quelle territoriali storiche fra Nord e Sud del paese, ma da esse non germoglia spontaneamente e deterministicamente la sinistra. Anzi, di solito vengono fuori cose di una destra becera e reazionaria, molto brava a mimetizzarsi, se serve, come accadde agli inizi del fascismo nei panni sovversivi e socialisteggianti dei propri stessi avversari. Altrimenti, normalmente, a questa destra vanno più che bene le solite ricette: nazionalismo, suprematismo, sovranismo, xenofobia, legge e ordine. Il tutto condito con la salsa pepata della demagogia populistica e, alla bisogna, con una spruzzatina di integralismo e sanfedismo cattolico.

Occorre mescolarsi, identificare con il popolo, la gente comune, organizzarsi in forme nuove

La sinistra politica, invece, può essere frutto solo di una costruzione positiva e certosina, fatta d’impegno, di passione, d’indignazione e rivolta contro le ingiustizie e di dedizione al bene comune, nutrita da una concezione della politica che considera la condizione sociale, i rapporti sociali concreti, gli uomini in carne ed ossa con tutte le loro debolezze, paure, pregiudizi, il punto di partenza e anche di arrivo della sua azione. La sinistra per svolgere la sua missione anche pedagogica d’incivilimento democratico e progressista, deve sapersi mescolare e identificare con il popolo, le masse, la gente comune, deve organizzare le persone in forme nuove corrispondenti alla situazione di oggi dove non c’è più la fabbrica di migliaia di operai, ma migliaia di lavoratori in migliaia di posti di lavoro dispersi. La sinistra, i suoi referenti sociali deve saperli organizzare nei territori per renderli protagonisti della politica e non solo oggetto di propaganda. La fatica della sinistra è di appellarsi alla ragione dei lavoratori, dei poveri, degli esclusi, in una parole dei subalterni e anche a quella dei borghesi progressisti, dimostrando nei fatti che la giustizia e la libertà, termini tra loro strettamente connessi anche nella nostra Costituzione, e l’azione collettiva per conseguirle sono più convenienti oltre che più umane e civili che non la chiusura nel proprio interesse egoistico e “particulare”. Ma per far questo la sinistra deve stare con loro e tra loro con la prassi politica, con costumi sobri, con l’esempio e non solo con le prediche buoniste.
Il luogo di questa costruzione è la società civile. E’ lì che occorre stare, per coltivarla altrimenti di per sé produce erbacce, per rioccuparne le trincee e le casematte dell’egemonia politica e culturale premessa indispensabile per essere presenti con forza stabile e non effimera nella società politica, nelle istituzioni e nello stato.

Ci sono le condizioni per costruire un partito? O si riparte da un Movimento che nasca dall’associazionismo progressista?

Per questo servirebbe teoricamente un partito. Ma oggi non ci sono le condizioni per fare un partito. La situazione di sconfitta e di scioglimento di un vecchio blocco sociale è troppo grande perché si possa ricominciare da un partito. Esso sarebbe inevitabilmente occupato, com’è successo con le esperienze fin qui provate, compresa LeU, dai residui incrostati e incancreniti di un vecchio e fallimentare ceto politico autoreferenziale, abituato più a fondare percentuali per spartirsi posti, che non un partito aperto alla società e ai subalterni che si vorrebbero rappresentare. Non è da qui che la sinistra può ricominciare per una lunga marcia di attraversamento del deserto. E’ più aderente alla situazione data partire, per ora, da un Movimento che nasca dall’associazionismo progressista di varia natura, diffusamente presente nei territori. Bisogna ripartire non dalle sezioni o circoli di partito, per altro assai scarsi, ma dalle “case del popolo” connettendo là dentro, in modo federativo, la sinistra sociale, la voglia di partecipazione di singoli e delle strutture associative con le rappresentanze istituzionali disponibili. Un Movimento che definisca obiettivi prioritari: occupazione, riduzione drastica delle forme di lavoro precario, lotta all’evasione fiscale, reddito di inclusione legato a un piano straordinario di avviamento al lavoro, investimenti pubblici per ambiente e territorio, lotta ai privilegi di casta e corporativi.

Non si tratta di affidarsi alla spontaneità, ma a un indirizzo consapevole di un consapevole gruppo dirigente conscio dell’immane e non breve lavoro di ricostruzione che bisogna fare. Attrezzato a farlo, culturalmente e anche psicologicamente, affinché in questo paese torni a vivere una sinistra popolare e di massa degna del suo passato.

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