Papa Francesco chiede obbedienza alla Curia romana: è a servizio del popolo di Dio

Papa Francesco chiede obbedienza alla Curia romana: è a servizio del popolo di Dio

Atteso appuntamento per misurare lo stato della riforma che il Conclave del 2013 lo ha chiamato a promuovere, il discorso di papa Francesco alla Curia romana per gli auguri di Natale, oggi, ha chiarito che il pontefice argentino non intende tollerare i casi di insubordinazione perché considera la burocrazia vaticana al servizio del popolo di Dio, e non il contrario. Jorge Mario Bergoglio è consapevole dell’entità della sfida, e lo dice citando con ironia un aforisma dell’arcivescovo belga protagonista, dopo l’unità d’Italia, dell’urbanizzazione della nuova capitale, Francesco Saverio de Merode: “Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti”. Se nel 2014 il Papa latino-americano ha gelato i collaboratori elencando le 15 malattie della Curia romana, nel 2015 è passato agli “antibiotici curiali” e nel 2016 ha puntigliosamente rivendicato i non pochi passi “compiuti” da una riforma tesa a dare alla Curia forma più evangelica, oggi Francesco ha voluto insistere sulla “comnione di filiale obbedienza per il servizio al popolo santo di Dio”.

Piccoli e grandi inciampi e tranelli contro il pontefice

In filigrana traspaiono nel discorso del papa vicende come la fuga di documenti riservati sulle finanze vaticane (Vatileaks), al centro di un processo vaticano a due dipendenti, il licenziamento, inizialmente silenzioso e poi fragoroso, del revisore dei conti Libero Milone, se non la fronda capitanata dal cardinale statunitense Raymond Leo Burke per contrastare le aperture sulla pastorale famigliare o il risentimento espresso in ripetute interviste dal cardinale tedesco Gerhard Ludwig Mueller che Francesco ha prepensionato questa estate dalla potente posizione di prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. “È molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano – nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni – un cancro che porta all’autoreferenzialità”, afferma il Papa, che indica poi il pericolo “dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma – non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità – si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del ‘Papa non informato’, della ‘vecchia guardia’…, invece di recitare il ‘mea culpa’”.

Lo scontro con un gruppo minoritario della Curia

Parole nette, che danno la misura dello scontro con un gruppo di Curia che Francesco considera minoritario, se sottolinea che ci sono anche altre persone “che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene”, e vi è, soprattutto, “la stragrande maggioranza di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità”, a partire dai nunzi apostolici che il papa elogia insistentemente per la capacità di costruire “ponti di pace e di dialogo tra le nazioni”. Il discorso del papa non mira ad una obbedienza cieca al capo. Certo, Francesco inizia il suo discorso proprio da questo concetto, quando esordisce dicendo che “il Natale è la festa della fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo per ridonare all’uomo la sua dignità filiale, perduta a causa del peccato e della disobbedienza”. Il vero problema della Curia, chiamata ad “abbandonare il superfluo, il falso, il malizioso e il finto”, è per il papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, la autoreferenzialità, il rischio che corre è niente meno che la sua fine: “Una Curia chiusa in sé stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferenzialità, condannandosi all’autodistruzione”. La Curia romana, insomma, è chiamata ad aprirsi verso l’esterno, che si tratti dei fedeli, delle Chiese locali, delle nazioni del globo, dei cristiani delle altre confessioni o dei fedeli di altre religioni. La sua “obbedienza” e “fedeltà” (in una nota a piè di pagina il Papa cita al proposito Benedetto XVI) non è fine a se stessa ma funzionale al servizio che essa deve svolgere per la Chiesa universale.

Papa Francesco e la metafora dei sensi

Per questo il papa indica la metafora dei sensi (la Curia, come un diacono, deve essere orecchie, bocca e occhi del vescovo) e delle antenne: la “recettività”, dice al proposito, “è più importante dell’aspetto precettivo”. A inizio pontificato Jorge Mario Bergoglio aveva spiegato in un’intervista alla Civiltà cattolica che “i dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei Vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. E’ impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori”.

A quattro anni da allora il Papa è passato dalle parole ai fatti. È consapevole che non tutto ha funzionato, che la riforma crea malumore. Ai dipendenti vaticani, che ha incontrato dopo il discorso alla Curia, ha promesso che vigilerà affinché sparisca del tutto il lavoro nero e precario in Vaticano. Ma la posta in gioco, indicata in chiusura del discorso mattutino, è troppo alta per ammorbidire la linea: il Natale, ha detto, ricorda che “una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta. In realtà, una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l’anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili”.

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