
Presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, ha avuto luogo la presentazione del Manifesto contro la disuguaglianza. Dopo il saluto della presidente della Camera Laura Boldrini, la giornalista Roberta Carlini ha introdotto i lavori. Sono seguiti gli interventi del professor Maurizio Franzini e del presidente del Nens Vincenzo Visco. Le riflessioni finali sono state affidate all’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Pubblichiamo di seguito la premessa e sintesi del Manifesto, allegando in coda il testo integrale.
Premessa e sintesi
La diseguaglianza è il problema fondamentale del nostro tempo. Le difficoltà politiche, il malessere sociale, il disagio economico hanno origine anche, e soprattutto, nella crescita senza precedenti delle diseguaglianze economiche che si collegano a quelle sociali e culturali. La tenuta delle nostre società è a rischio. Un Manifesto è uno strumento assertivo e, in qualche modo, di parte ma fondato su solidi argomenti, con cui si intende richiamare l’attenzione su un problema, del quale vengono sinteticamente illustrate le caratteristiche di fondo e per il quale si indicano schematicamente le soluzioni che, peraltro, non sempre sono immediatamente realizzabili. Ma, come è stato detto, il
tempo può rendere politicamente inevitabile ciò che appare politicamente impossibile. Con questo breve documento intendiamo ricordare che negli ultimi 30 anni si è prodotta una fondamentale discontinuità negli equilibri economici e politici dell’Occidente, fornire elementi di informazione sulle caratteristiche e le dimensioni dei fenomeni che ne sono derivati, dare brevemente conto della discussione accademica sia sulle loro cause profonde, sia sui rimedi per i quali occorrerà battersi per un tempo non breve. Solo una presa di coscienza adeguata può fornire gli strumenti per una reazione adeguata alla gravità della situazione.
La crescita della diseguaglianza si è manifestata praticamente in tutti i comparti dell’economia e in quasi tutti i paesi, anche se con differenze talvolta significative. Negli ultimi 30 anni si è verificato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti e alle rendite (un tempo si sarebbe detto dal lavoro al capitale): intorno ai 15 punti di Pil; all’interno dei redditi di lavoro, lo spostamento è stato dalle classi medie, dagli operari e dagli impiegati verso i dirigenti, i manager e i professionisti; i rentiers hanno visto migliorare dovunque la loro posizione. Inoltre, la disoccupazione è diventata un problema sempre più difficile da gestire: le economie, anche per la debolezza degli investimenti, rischiano la stagnazione e hanno bisogno di stimoli artificiali basati sull’indebitamento per funzionare, ma questo crea problemi di stabilità finanziaria e accresce il rischio di crisi e recessioni che riversano i loro effetti negativi soprattutto sui lavoratori, sulle classi medie e sui giovani. Nella “coda” inferiore della distribuzione dei redditi la diseguaglianza si trasforma in povertà….
Questa situazione non si è prodotta per caso. Essa è il risultato del capovolgimento del compromesso “keynesiano” che è stato alla base del funzionamento delle economie capitalistiche nel secondo dopoguerra. Allora, memori dei disastri della crisi del ’29 e dei rischi rappresentati dalle idee socialiste e dalle rivoluzioni comuniste per la sopravvivenza dei sistemi liberali, i governi dell’occidente accettarono di creare un contesto di regole e normative idonee, tra l’altro, a far sì che i benefici della crescita venissero divisi equamente. Il sistema funzionò egregiamente per vari decenni, ma fu poi travolto dalle controrivoluzioni di Reagan e Thatcher che ripristinarono la convinzione liberista che il mercato lasciato a sé stesso avrebbe risolto ogni problema. L’effetto finale è stato quello di sostituire al principio democratico quello capitalistico: non più “una testa un voto” ma “un dollaro un voto”. Così sono stati modificati alcuni fondamentali equilibri economici politici e sociali con conseguenze che oggi sono ben visibili. Alla base delle diseguaglianze odierne vi sono precise scelte politiche che hanno condotto, tra l’altro, a mutamenti radicali nella distribuzione del potere economico, tra sindacati ed imprese, all’interno delle imprese – mentre venivano indebolite le funzioni delle democrazie nazionali -, alla nascita di nuovi e molto potenti monopoli ; alla maggiore facilità per i ricchi di non pagare le tasse; al più forte condizionamento dei governi da parte dell’accresciuto potere economico; all’esclusione di ampi settori della società dalla vita sociale. E anche a causa di tutto ciò la mobilità sociale è praticamente scomparsa: il destino dei figli dipende sempre più dalla condizioni dei loro genitori e per i figli dei ricchi è sistematicamente più roseo di quello dei figli della “gente normale”.
I tentativi di giustificare le diseguaglianze non sono convincenti: la loro crescita non sembra giustificata dallo sviluppo tecnologico; l’affermarsi di una classe di nuovi ricchi presunti titolari di capacità fuori dal comune, e perciò da remunerare profumatamente, riflette in realtà diffusi e non sempre ben visibili poteri di monopolio, che si inquadrano nella pericolosa tendenza verso un capitalismo oligarchico; l’idea, frequentemente proposta, che la diseguaglianza sia necessaria alla crescita economica, e perciò possa essere non solo giustificata ma perfino benefica, viene smentita dai fatti e dai molti studi (anche del Fondo Monetario Internazionale e dell’OCSE) che mostrano, invece, come le disuguaglianze possano frenare la crescita. Il Manifesto elenca 28 interventi o politiche che potrebbero correggere la situazione attuale. L’elenco non è certamente completo, ma indica la strada da percorrere.
L’obiettivo di queste politiche non è quello di condurci verso una grigia società nella quale vige un ottuso egualitarismo economico. Piuttosto si tratta di aspirare a creare una società più dinamica, più mobile e più giusta che, come tale, può contemplare anche disuguaglianze economiche. Ma saranno, diversamente da gran parte di quelle che oggi dominano, disuguaglianze accettabili. Alcune di quelle politiche potrebbero essere adottate subito, altre richiedono di superare molte difficoltà, con pazienza e determinazione. Alcune possono essere introdotte a livello nazionale, per altre sono necessarie soluzioni sovranazionali. E’ una strada lunga, conflittuale e difficile, ma il
problema va affrontato per quello che è. E’ pericoloso ignorare il problema ed è inutile minimizzarlo, pensando che bastino pochi e semplici correttivi per risolverlo. Si tratta, in realtà, di modificare i meccanismi fondamentali di funzionamento delle nostre società e di mettere un freno agli interessi di ceti potenti e mai sazi.
Contro la disuguaglianza: come e perché. Un manifesto
1. La disuguaglianza dei redditi in Italia: tendenze e confronti internazionali.
Se si confronta la disuguaglianza dei redditi disponibili equivalenti di oggi con quella di 3 decenni fa si nota che essa è aumentata, spesso significativamente, in pressoché tutti i paesi, in particolare quelli avanzati (i redditi disponibili sono dati dai redditi da qualsiasi fonte – lavoro, capitale, trasferimenti pubblici in moneta – percepiti dai membri di un nucleo familiare, al netto delle imposte personali; tali redditi sono trasformati in redditi individuali attraverso le scale di equivalenza che tengono conto della numerosità dei nuclei familiari e perciò si parla di redditi disponibili equivalenti). A dircelo è principalmente il coefficiente di Gini che è l’indicatore principe, anche se non privo di problemi, della disuguaglianza. In tutti i paesi, il coefficiente di Gini, sia nel 2005 che nel 2013, è superiore, spesso di molto, al valore che aveva nel 1985 e solo in pochi casi (tra cui l’Italia) non risulta in crescita in quegli 8 anni.
In Italia tale coefficiente ha conosciuto un balzo improvviso intorno al 1993 – largamente dovuta alla severa manovra del 1992 indotta dal rischio di default, al sostenuto aumento della disoccupazione e alla svalutazione, interamente assorbita dai salari –, ma successivamente è rimasto sostanzialmente costante a un livello molto elevato, superato da pochissimi altri paesi avanzati. La stabilità del valore del coefficiente di Gini è compatibile, però, con movimenti significativi nella distribuzione dei redditi: quelli che si compensano nei loro effetti e quelli che, per difetto dei dati, non vengono neanche rilevati. Un esempio dei primi è, nel nostro paese, il progressivo miglioramento complessivo – almeno fino al 2008 – della posizione di dirigenti, pensionati, percettori di redditi da capitale e lavoratori autonomi a fronte del regresso di operai e impiegati. Il difetto nella disponibilità di dati si riferisce ai problemi che le indagini hanno a rilevare con attendibile precisione (per problemi di campionamento) i redditi “estremi”: quelli dei molto poveri e quelli dei molto ricchi. Poiché è probabile che proprio in quei segmenti si siano verificati i maggiori cambiamenti – tra i più poveri per effetto, ad esempio, dell’immigrazione; tra i più ricchi per la generalizzata tendenza alla crescente concentrazione dei redditi nelle loro mani – si può ipotizzare che la disuguaglianza sia peggiorata più di quanto non risulti dai dati ufficiali. La costanza del coefficiente di Gini negli ultimi due decenni si riferisce, come si è detto, ai redditi disponibili, cioè ai redditi che provengono dai mercati in cui si è presenti al netto delle imposte dirette, ma inclusivi dei trasferimenti pubblici in moneta. Se considerassimo, invece, i soli redditi di mercato (non considerando, dunque, imposte e trasferimenti) i risultati sarebbero diversi: in Italia, il corrispondente coefficiente di Gini, che era in crescita sostenuta già dalla metà degli anni’80, ha continuato a crescere negli anni successivi, inclusi quelli della crisi. Il fenomeno ha riguardato moltissimi altri paesi, ma da noi è stato particolarmente marcato e oggi l’Italia ha una disuguaglianza nei redditi di mercato superiore a quella degli Stati Uniti, seppure di poco inferiore a quella della Spagna e del Regno Unito.
Dunque, i mercati sono divenuti istituzioni all’interno delle quali si produce sempre più disuguaglianza. I sistemi di tassazione e trasferimento riescono a ridurre la disuguaglianza nei redditi disponibili, la cui distribuzione, come sopra indicato, è meno disuguale. Tale capacità, tuttavia, potrebbe indebolirsi, anche a causa delle politiche di austerità, e resta comunque aperta la questione della legittimità, in sé, delle disuguaglianze di mercato. In Italia, in ogni caso, l’intensità dell’azione redistributiva à nel complesso relativamente bassa anche se in crescita negli ultimi anni. In quasi tutti i Paesi avanzati, con l’eccezione degli Stati Uniti, il coefficiente di Gini si riduce di almeno 1/4 quando ai redditi di mercato si sottraggono le imposte personali e si aggiungono i trasferimenti monetari del welfare. La riduzione maggiore si osserva nei Paesi del Nord Europa – anche se la capacità redistributiva è diminuita nel corso del tempo e, in Svezia, si è drammaticamente ridotta negli ultimi anni – oltre che in Francia e in Germania (dove, invece, la capacità redistributiva è rimasta sostanzialmente stabile). L’Italia è caratterizzata da un’intensità della redistribuzione che, seppur inferiore a quella dei paesi dell’Europa del Nord e Continentale, risulta in evidente crescita in tutto il periodo considerato (anche se l’aumento si è attenuato dal 2005 al 2013). Nel periodo della crisi l’intensità della redistribuzione risulta aumentata in misura cospicua in Spagna e diminuita, invece, in Danimarca, Svezia e Regno Unito. Tuttavia, i dati di cui disponiamo ci consentono di tenere conto soltanto della redistribuzione che ha luogo attraverso trasferimenti monetari e non con i cosiddetti trasferimenti in natura (cioè servizi gratuiti o sussidiati). Restano escluse anche le imposte indirette. Dal calcolo della redistribuzione si escludono quindi alcune fra le voci del bilancio pubblico che più potrebbero aver risentito, recentemente, delle contrazioni di spesa legate alle misure di austerità. Inoltre, la differenza nella disuguaglianza tra redditi disponibili e redditi di mercato è molto influenzata dalle pensioni: un pensionato senza altra fonte di reddito ha un reddito di mercato nullo, ma un reddito disponibile positivo. Dunque, l’inclusione delle pensioni genera una forte differenza tra redditi disponibili e redditi di mercato. Ma le pensioni, quando si è in un sistema contributivo, non sono redistributive, nel senso che non trasferiscono reddito dai ricchi ai poveri; esse sono piuttosto redistribuzioni intra-individuali: le prestazioni sono strettamente commisurate alle contribuzioni versate durante la vita lavorativa. Dunque, restano molti dubbi sull’effettiva entità della correzione della disuguaglianza di mercato realizzata con la redistribuzione. Al riguardo è molto rilevante anche il ruolo dei servizi pubblici: calcolare il loro impatto redistributivo non è facile ma di certo la disuguaglianza risulta attenuata se la loro offerta è abbondante e gratuita. In Italia, l’insufficiente offerta di diversi tipi di servizi (ad esempio asili nido) e la tendenza alla loro ulteriore contrazione certamente indebolisce l’efficacia dell’azione redistributiva dello Stato.
2. Le disuguaglianze e il lavoro
Nel mercato del lavoro si sono verificati cambiamenti che hanno avuto un grande impatto sulla disuguaglianza e che sono responsabili di gran parte del peggioramento nella disuguaglianza nei redditi di mercato. Una rilevante modifica riguarda lo spostamento di quote consistenti di reddito dal lavoro al capitale. Senza entrare nel merito dei problemi di misurazione, si può affermare che questo fenomeno ha assunto caratteri marcati in moltissimi paesi nel corso degli ultimi decenni. La quota del lavoro oscilla tra il 55 e il 70% del reddito nazionale. Essa è cresciuta nel corso degli anni ’70, ma ha iniziato a declinare nel decennio successivo con l’esito che la quota trasferita al capitale è compresa tra i 10 e i 15 punti del reddito totale. In Italia lo spostamento è stato di oltre 10 punti anche se il fenomeno sembra in leggera diminuzione negli ultimissimi anni. Questo spostamento tende ad accrescere le disuguaglianze nei redditi personali perché i redditi da capitale sono distribuiti in modo più disuguale dei redditi da lavoro. Non si sottovaluti, tuttavia, la crescita della disuguaglianza all’interno dei redditi da lavoro (includendo cioè nell’analisi unicamente i percettori di tali redditi). Questo peggioramento ha interessato moltissimi paesi anche negli anni più recenti.
In Italia, come emerge dall’osservazione dei dati amministrativi raccolti dall’INPS, tra il 1990 e il 2013 la disuguaglianza salariale, con riferimento ai lavoratori dipendenti del settore privato, risulta aumentata in misura consistente. Il coefficiente di Gini delle retribuzioni annue è aumentato del 17,5%, mentre nello stesso periodo la crescita della disuguaglianza nelle retribuzioni settimanali, considerando, rispettivamente, tutti i lavoratori o solo quelli a tempo pieno, risulta pari al 13,1% e al 15,2%. Le disuguaglianze nei redditi da lavoro nel nostro paese sono, dunque, cresciute a causa sia della maggiore dispersione nei salari orari (come segnala il dato sulla dispersione salariale dei dipendenti full-time), sia delle crescenti differenze nelle settimane e nelle ore lavorate. La letteratura economica tende ad attribuire la crescita della disuguaglianza salariale al premio crescente di cui beneficerebbero i più istruiti. Il progresso tecnologico – le nuove tecnologie informatiche, per risultare produttive, debbano, essere utilizzate da lavoratori ad alto capitale umano – e le forze della globalizzazione – che consentono di delocalizzare o sostituire le mansioni a minor valore aggiunto nei paesi in via di sviluppo – porterebbero, infatti, ad accrescere la domanda per i lavoratori più istruiti e a ridurre, al contempo, quella per i meno istruiti, generando, di conseguenza, un ampliamento del divario salariale fra le due tipologie di lavoratori.
La visione della disuguaglianza che discende da tale interpretazione è, in una qualche misura, rassicurante: la crescita delle sperequazioni dipenderebbe, infatti, da aspetti legati alle abilità individuali e, ad ogni modo, sarebbe determinata da meccanismi “naturali” esogeni alle scelte di policy, quali il progresso tecnologico e la globalizzazione.
Tenendo conto della crescente importanza che viene attribuita al capitale umano (ovvero all’istruzione), almeno nella letteratura economica, come causa di disuguaglianza nei redditi da lavoro è opportuno soffermarsi sul suo ruolo. Usando semplici tecniche statistiche di scomposizione degli indici di disuguaglianza, risulta che in Italia (ma non solo) è molto esigua (10-15%) la parte di disuguaglianza nei salari attribuibile al capitale umano; il resto dipende da altri fattori, cioè si manifesta a parità di titolo di studio. È significativo, poi, che dal 1992 in poi, con riferimento alle retribuzioni settimanali di chi lavora full-time, la quota di disuguaglianza salariale attribuibile all’istruzione è diminuita nel nostro paese dal 16,5% del 1992 all’8,9% del 2007. Le differenze nel grado di istruzione non appaiono, dunque, sufficienti a spiegare livelli e tendenze delle disuguaglianze di mercato in Italia (e in molti altri paesi).
3. I super-redditi e i talenti
Un modo diverso di osservare la disuguaglianza dei redditi di mercato e la sua tendenza consiste nel concentrarsi sulla quota di reddito nazionale detenuta dai segmenti più ricchi, in particolare il top 1%. In questo caso non si utilizzano dati provenienti da indagini campionarie (che, come detto, non registrano con precisione ciò che accade nelle code della distribuzione), ma quelli raccolti nelle dichiarazioni dei redditi. La quota di reddito individuale lordo detenuta dal top 1% è massima nel Regno Unito e negli Stati Uniti mentre è minima nei Paesi Bassi e in Svezia e, a partire dall’inizio degli anni ’80, è cresciuta in modo generalizzato, anche se a ritmi molto diversi. In Italia, essa è aumentata di più di due punti percentuali fra il 1980 e il 2010. Se in passato i redditi dei più ricchi provenivano soprattutto dal rendimento del capitale e dalle rendite oggi le cose stanno piuttosto diversamente. In Italia, dal 1980 in poi, la composizione dei top incomes si è nettamente modificata: la quota di reddito da lavoro (autonomo e dipendente, includendo le pensioni, che dipendono dal precedente reddito da lavoro) dell’1% più ricco della popolazione è passata dal 46,4% al 70,9% e, parallelamente, si è ridotta quella del reddito da capitale o delle rendite. Il fenomeno – che si spiega con gli aumenti sostenuti dei redditi dei manager, dei libero professionisti e delle star dello spettacolo e dello sport – è anche più marcato in altri paesi.
I super-redditi da lavoro sono spesso considerati la conseguenza di una competizione molto intensa – e globale – che si risolve a vantaggio dei “migliori” anche secondo il principio del “vincitore che prende tutto”. Tuttavia, a un’attenta analisi, le super-retribuzioni che emergono al top sembrano in generale difficilmente attribuibili a straordinari talenti o capacità; più spesso esse sono legate a “rendite da lavoro” connesse a posizioni di potere e a malfunzionamenti dei meccanismi di mercato, indotti, da barriere che, in vario modo, limitano una competizione effettiva. Anche questo è un canale di aggravamento delle disuguaglianze di mercato. Va anche considerato che, secondo alcuni studi recenti, la crescita di questi super-redditi (lordi) è legata alla diminuita progressività del sistema fiscale ed in particolare alla riduzione delle aliquote marginali sui redditi più elevati. I meccanismi attraverso i quali può prodursi un simile effetto possono essere diversi. Uno di essi è il vantaggio accresciuto (in termini di reddito netto) a spostare quota di reddito lordo a proprio beneficio – sottraendoli ad altri soggetti operanti nell’impresa – da parte dei manager.
4. Le disuguaglianze nella ricchezza
Lo studio, e la comparazione internazionale, delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza è più problematico rispetto alla disuguaglianza nei redditi per diverse ragioni, la principale delle quali è la minore attendibilità dei dati. In ogni caso appare indiscutibile che la ricchezza è ovunque distribuita in modo più disuguale del reddito e che l’Italia non è tra i paesi più disuguali in termini di ricchezza, come invece è per il reddito. Infatti, sulla base delle stime dell’OCSE, la quota di ricchezza posseduta dall’1% più ricco è pari al 14,3%, mentre il corrispondente valore negli Stati Uniti è del 36,6% e numerosi altri paesi presentano valori più alti del nostro, talvolta in modo significativo. Ad esempio, la Germania è al 24,5%, i Paesi Bassi al 23,9%; la Norvegia al 18,5% e la Francia al 18,0%. La contenuta disuguaglianza nella ricchezza in Italia si spiega largamente con la diffusa proprietà della casa; infatti, la disuguaglianza nella distribuzione del patrimonio immobiliare è relativamente bassa, diversamente da quanto accade per le altre forme di ricchezza che, però, hanno una limitata incidenza sulla ricchezza complessiva. È però vero che anche per la ricchezza si è verificato un peggioramento nella distribuzione: nel corso degli ultimi 25 anni è cresciuta la disuguaglianza nella parte alla della distribuzione e sono aumentate le differenze tra l’1% più ricco e il 25% più povero, all’interno del quale vi è chi detiene una ricchezza nulla o perfino negativa (a causa dell’indebitamento). A questa tendenza ha contribuito il peso crescente della ricchezza ereditata che ha iniziato a manifestarsi dagli anni ’90; da allora, infatti, è aumentata la quota di ricchezza ereditata sulla ricchezza totale. Il collegamento con l’evoluzione della normativa sulle imposte di successione appare piuttosto evidente. Ed è anche evidente che se i lasciti ereditari fruttano un reddito, essi contribuiscono a accrescere le disuguaglianze nei redditi.
5. Perché di tutto questo non dovremmo preoccuparci? Luoghi comuni e dubbie verità
Queste tendenze e queste caratteristiche della disuguaglianza raramente suscitano reazioni di preoccupazione e ancora più raramente ispirano azioni dirette a contrastarle. Tra le varie ragioni vi sono alcune idee, piuttosto diffuse, che si rivelano, però, poco fondate. Le disuguaglianze mondiali sono in diminuzione: un fragile argomento. La Banca Mondiale, sulla base degli studi di Branko Milanovic, segnala come nel corso degli ultimi anni la disuguaglianza a livello globale si sia ridotta (l’indice di Gini sarebbe sceso da 0,72 a 0,67, restando comunque altissimo). Dunque, se il mondo è meno disuguale perché preoccuparsi di quello che succede all’interno dei paesi e in particolare in Italia? La disuguaglianza globale, per mancanza di dati, viene calcolata sommando la disuguaglianza fra i redditi medi dei paesi (la componente between) e quella all’interno dei paesi (la componente within). La disuguaglianza between e within hanno seguito andamenti opposti: la prima è caduta, la seconda, invece, è aumentata (il suo peso sulla pur decrescente disuguaglianza globale è passato dal 20 al 35%). Queste due tendenze non possono essere poste sullo stesso piano. La componente between non è propriamente una misura distributiva ed esprime la differenza nei redditi medi dei paesi (ciascuno pesato in base alla sua popolazione relativa). La sua riduzione dipende unicamente dal fatto che in alcuni paesi – in primis quelli con la maggior popolazione mondiale, Cina e India – il reddito medio, sospinto dalla crescita economica, di recente è aumentato più che nei paesi sviluppati. La componente within ha invece una vera dimensione distributiva e il suo peggioramento segnala distanze crescenti praticamente in tutti i paesi (ad eccezione di quelli dell’America Latina, dove il trend non sembra però destinato a continuare). In particolare, è stato così anche nei popolosi paesi in cui è cresciuto il reddito medio, Cina e in India. La distanza economica rispetto a chi vive nello stesso paese appare decisamente più influente sul benessere di ciascuno rispetto alla differenza nei redditi medi fra cittadini di diversi paesi. Se un italiano si allontana dal reddito medio dei suoi connazionali si sente, forse, meno deprivato perché i coreani si avvicinano alla media italiana? E se il coreano non più povero vede che le sue distanze dagli altri coreani sono comunque cresciute avvertirà un chiaro miglioramento del proprio benessere? Dunque questo motivo di tranquillità sembra poco fondato. Conta la povertà non la disuguaglianza: e perché? Per molti il vero e unico problema è il numero di poveri non le distanze economiche che separano gli individui, indipendentemente da quanto esse siano giustificate. Al contrario, appare importante esaminare i processi che comportano disparità reddituali fra individui, in modo da valutarne l’accettabilità in base a criteri condivisi di efficienza ed equità. Interessarsi unicamente alla lotta alla povertà estrema implicherebbe, invece, di considerare equivalenti situazioni in cui le alte remunerazioni dipendono da “sforzi” individuali e situazioni in cui esse derivano da forme di potere o vantaggi ingiustificabili (come, ad esempio, quelli legati al background familiare). Inoltre, l’ampliarsi delle distanze relative può comportare effetti negativi sul benessere complessivo, ad esempio frenando la crescita del PIL, minando la coesione sociale e anche – come risulta da vari dati – lo stato di salute. Infine, povertà e disuguaglianza, sono fenomeni strettamente connessi, dato che la povertà non è altro che una forma estrema di disuguaglianza nella “coda bassa” della distribuzione. Dunque ridurre le disuguaglianze in generale significa anche contrastare la povertà. Solo se non si intende toccare la quota di reddito dei più ricchi si comprende l’affermazione che il problema è la povertà e non la disuguaglianza. L’obiettivo dovrebbe essere l’eguaglianza delle opportunità: quale? come? Molto diffusa è anche l’idea che il vero obiettivo da perseguire sia non l’eguaglianza (e neanche la riduzione delle disuguaglianze) nei redditi, ma nelle opportunità, genericamente intese come le condizioni dalle quali dipende la possibilità di ottenere redditi che poi saranno diversi in base all’impegno ed altri “meriti” individuali. All’apparenza del tutto condivisibile, questa posizione presenta diversi problemi. Il primo problema è che, di nuovo, non verrebbe comunque valutata l’accettabilità dei premi che sarebbero pagati nei mercati una volta che fosse effettivamente realizzata l’uguaglianza dei punti di partenza fra gli individui. In altri termini, si assume che i mercati riflettano adeguatamente e perfettamente i meriti individuali. E si è già detto che non è così. Più specificamente, però, sorgono problemi a definire e porre in pratica (come mostra la situazione attuale delle opportunità) una ragionevole ed effettiva eguaglianza in questo ambito. Di solito si considera che le opportunità sono eguagliate se tutti hanno accesso alla medesima istruzione. Sappiamo che non si è riusciti a farlo e sappiamo anche che l’influenza della famiglia di origine (che dovrebbe essere praticamente nulla in condizioni di eguaglianza di opportunità) si manifesta anche oltre il completamento degli studi, e questo vale soprattutto nei paesi in cui le disuguaglianze di reddito sono più alte. Infatti, in Francia, Spagna, Italia e Regno Unito, a differenza di quanto avviene nei paesi del Nord Europa, le retribuzioni dei figli, anche a parità di istruzione, continuano a dipendere dallo status occupazionale dei genitori: in Italia, ad esempio, i figli di dirigenti e impiegati ricevono, in media, un “premio” salariale rispetto ai figli degli operai, pari, rispettivamente, al 18,1% e all’8,6%. I redditi guadagnati nel mercato del lavoro sono, dunque, influenzati da caratteristiche che i genitori possono più o meno direttamente trasmettere loro (istruzione, di diverso livello e qualità, altri vantaggi connessi a soft skills e network sociali di appartenenza) e ciò rende difficile distinguere risultati e opportunità. Tutto ciò è confermato dall’evidenza che, come si è detto, i paesi con la più alta disuguaglianza nei redditi sono anche quelli in cui è maggiore la correlazione fra i redditi di genitori e figli. Dunque, l’alta disuguaglianza nei redditi andrebbe combattuta anche perché, oltre a vincolare l’investimento in istruzione di chi proviene dai contesti meno favorevoli, contribuisce alla trasmissione di vantaggi e svantaggi alle generazioni successive. La preoccupazione, più che giusta, per l’eguaglianza delle opportunità non può dunque portare a disinteressarsi della disuguaglianza nei redditi. Le disuguaglianze servono alla crescita economica: quali prove? Un altro argomento assai di frequente menzionato per tollerare le disuguaglianze è quello secondo cui esse sarebbero favorevoli alla crescita economica. Le basi teoriche di questa affermazione sono decisamente controverse. Infatti, nella letteratura economica è possibile individuare una pluralità di meccanismi che legano la disuguaglianza alla crescita e se ve ne sono alcuni che determinano un impatto positivo della prima sulla seconda e ve ne sono molti altri che, invece, hanno un impatto negativo. Da questa varietà di plausibili meccanismi – peraltro non alternativi tra loro – è possibile trarre la conclusione che gli effetti della disuguaglianza sulla crescita non possono essere determinati a livello teorico, ma richiedono un accurato lavoro empirico. Tale lavoro è reso più complesso dalla difficoltà a disporre di dati tra loro comparabili che coprano un ampio orizzonte temporale e un vasto numero di paesi. In effetti, vi è una certa variabilità nei risultati degli studi empirici che in larga parte dipende dai dati utilizzati. Tuttavia, con riferimento soprattutto ai paesi avanzati, negli anni più recenti diversi lavori sono giunti alla conclusione che la disuguaglianza, nelle odierne condizioni, penalizza e non favorisce la crescita. In particolare, è questo il risultato che emerge da studi pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale e dall’OCSE. Secondo l’OCSE una crescita dell’indice di Gini di 3 punti percentuali – che è la crescita media effettivamente verificatasi nei paesi dell’OCSE negli ultimi due decenni – riduce la crescita economica di 0,35 punti percentuali all’anno per 25 anni. La perdita cumulata in quel periodo è dunque stata pari all’8,5%. Al di là di questi risultati, si può aggiungere che se, come oggi accade, la disuguaglianza è alta e lo è – in buona parte – per l’incidenza delle rendite (che non favoriscono la crescita economica) non sorprende che tra i due fenomeni vi sia una relazione negativa. Se, al contrario, la disuguaglianza premiasse l’innovazione e il capitale umano i risultati potrebbero essere diversi. Dunque, l’argomento che la disuguaglianza oggi deve essere tollerata e forse anche invocata per favorire la crescita non dispone di alcuna solida base teorica ed empirica. Ben più solido sembra essere l’argomento opposto. Le politiche possono fare poco: e invece no. Un’altra ragione per tollerare la disuguaglianza è la convinzione che le politiche possano fare poco per contrastarla, essendo il processo determinato dalle forze incontrollabili del progresso tecnologico e della globalizzazione. Si tratta di una convinzione sbagliata. Anzitutto, si è già detto che la disuguaglianza contemporanea sembra dipendere solo in minima parte dal capitale umano, sul quale dovrebbero appunto scaricarsi gli effetti del progresso tecnologico e della globalizzazione. Inoltre, e soprattutto, sono state certamente le politiche adottate a livello nazionale e internazionale a determinare l’entità e le caratteristiche della disuguaglianza. Politiche diverse avrebbero, dunque, effetti diversi e non si tratta soltanto di politiche di tipo redistributivo . Come si dettaglierà tra breve, contano anche le politiche che incidono in vario modo sul funzionamento dei mercati, in particolare ma non solo quello del lavoro; sulla governance e il potere all’interno delle imprese; sulla trasmissione intergenerazionale dei vantaggi e degli svantaggi. In realtà, proprio alle diverse politiche adottate si possono ricondurre le differenze che si sono avute, anche in termini di disuguaglianze, tra i decenni successivi alla seconda guerra mondiale e quelli a noi più vicini.
6. In sintesi
Le disuguaglianze nei redditi sono cresciute moltissimo negli ultimi 3 decenni, invertendo un trend verso la diminuzione manifestatosi in modo generalizzato nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Le cause di queste tendenze sono molteplici ma tutte sono, in qualche modo, riconducibili a scelte politiche errate o inappropriate. L’accresciuto potere del capitale sul lavoro è scaturito anche dalle politiche di liberalizzazione dei movimenti di capitale e dal modo in cui si è dato corso alla globalizzazione; la tendenza verso una
maggiore dispersione dei redditi da lavoro è stata indotta più che dal maggior premio associato al capitale umano, per effetto della globalizzazione e del progresso tecnologico, da politiche che con il loro orientamento a favorire la flessibilità hanno sempre più individualizzato il lavoro; il formarsi di rendite crescenti in vari mercati deriva principalmente dall’indebolimento delle politiche che avrebbero dovuto favorire la concorrenza nelle sue forme migliori; l’affermarsi di una struttura oligarchica all’interno del capitalismo che include in misura crescente chi deriva il proprio reddito non soltanto e non principalmente dal rendimento del capitale ma da quello del proprio “lavoro” è stato favorito da politiche che hanno protetto rendite gigantesche e contribuito anche alla trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze; la tendenza delle politiche redistributive a essere, nel complesso, troppo timide di fronte a queste evoluzioni è anch’essa una scelta, forse condizionata dall’impatto che gli interessi dei più abbienti possono esercitare sulle decisioni politiche quando la disuguaglianza economica raggiunge livelli elevati. Gli effetti di questa dinamica della disuguaglianza sono rilevanti ben oltre le loro implicazioni di giustizia sociale. Ne risente l’economia, ma anche la democrazia e più in generale la società. Mentre il reddito concentrato nelle mani dei più ricchi cresce sempre più i redditi mediani sono pressoché stagnanti. Ne risulta indebolita la classe media e, con essa, la coesione sociale e il funzionamento della democrazia. L’importanza delle classi medie per una società ben funzionante fu sottolineata già da Aristotele (Politica, Libro IV, Cap.11). Peraltro, alcune tendenze in atto, possono determinare – in assenza di efficaci interventi di contrasto – ulteriori peggioramenti della disuguaglianza. Le due più rilevanti sono, da un lato, la robotizzazione che – senza correttivi – può determinare estesi fenomeni di disoccupazione tecnologica e, dall’altro, l’immigrazione che, come mostrano i dati più recenti sulla povertà, rischia di generare un cospicuo numero di poveri assoluti.
7. Le politiche di contrasto alla disuguaglianza economica: un quadro d’assieme
Nel proporre un insieme di interventi diretti a contrastare le disuguaglianze economiche è utile definire il quadro complessivo nel quale tali interventi devono iscriversi e gli specifici obiettivi che con essi ci si propone di raggiungere. Alla definizione di questo quadro concorre, naturalmente, l’analisi delle caratteristiche che oggi la disuguaglianza ha specificamente nel nostro paese e di cui si è detto in precedenza. Al riguardo vi è un aspetto sul quale si concentra spesso l’attenzione ed è quello dei divari territoriali: ad esso molti sembrano attribuire un peso decisivo nella spiegazione dell’alta disuguaglianza economica del nostro paese. Si tratta di un’opinione non ben fondata. E’ indiscutibile che i differenziali nei redditi medi tra Mezzogiorno e resto del paese sono elevati e da lungo tempo, ma il loro contributo alla disuguaglianza complessiva è molto limitato: ben più rilevanti sono le differenze all’interno delle singole regioni. Alcune elaborazioni mostrano, ad esempio, che se anche eliminassimo i divari medi fra le regioni italiane, lasciando però immutati i differenziali interni, la disuguaglianza dei redditi disponibili in Italia si ridurrebbe appena del 6%. Le caratteristiche più rilevanti della disuguaglianza contemporanea sono altre ed esse sono tali da rendere insufficiente il ricorso alle sole politiche di tipo redistributivo. E’, infatti, necessario cercare di prevenire la formazione delle disuguaglianze nei mercati con interventi che spesso vengono definiti pre-distributivi e che ricadono nell’ambito di un vasto insieme di politiche, da quelle macroeconomiche a quelle per la concorrenza. Non meno importanti sono gli interventi diretti a correggere alcuni assetti istituzionali che hanno rilevanti conseguenze sul funzionamento dell’economia e sulla possibilità stessa di adottare le politiche più appropriate. Tutto ciò potrà favorire anche un processo di crescita inclusiva, cioè essenzialmente di crescita che non si risolva in vantaggio soprattutto per chi è già avvantaggiato. Le politiche e gli interventi che proponiamo, e che verranno più sotto definiti in maggiore dettaglio, possono essere raggruppati nel modo che segue: Riforma delle istituzioni economiche e interventi sul contesto. La disuguaglianza risente in vario modo degli assetti istituzionali e delle più generali condizioni nelle quali si svolge il processo economico. Tra molti desiderabili interventi i più urgenti riguardano la revisione o la riforma:
• del ruolo e del potere delle banche e del sistema finanziario;
• delle modalità di finanziamento della politica;
• della lotta alla corruzione e alla criminalità;
• delle regole di governance aziendale;
• del funzionamento della P.A. con particolare riferimento al ruolo che può svolgere la valutazione delle politiche anche sotto il profilo dell’impatto distributivo.
Politiche macroeconomiche
Le politiche macroeconomiche dovrebbero essere più nettamente orientate a creare occupazione stabile. Poiché, però, neppure l’incremento dell’occupazione potrebbe risolversi automaticamente in diminuzione della disuguaglianza (come peraltro verificatosi in Italia dalla metà degli anni ’90 dello scorso secolo fino all’esplosione della crisi), va dedicata specifica attenzione alla questione della ripartizione del lavoro fra le famiglie (valutando, cioè, come si distribuisce la maggiore occupazione tra i diversi nuclei familiari). Politiche di investimenti pubblici e di ampliamento della domanda appaiono desiderabili anche per la loro capacità di rafforzare, attraverso la maggiore occupazione, il potere contrattuale dei lavoratori e di contribuire a un processo di crescita inclusiva, che non sia cioè di vantaggio prevalente per chi già ha redditi elevati. Indispensabili sono anche politiche che limitino la speculazione finanziaria e, soprattutto, mettano i risparmi al riparo dal rischio di evaporare per effetto della speculazione e del potere delle banche.
Politiche per la concorrenza
Senza snaturare i propri obiettivi tradizionali (tutela del consumatore, crescita e innovazione) la politica della concorrenza può contribuire in misura significativa ed in vari modi – come vedremo – non solo a perseguire l’eguaglianza delle opportunità ma anche a ridurre una serie di distorsioni e privilegi che rilevano in termini di eguaglianza sostanziale, combattendo in primo luogo le rendite.
Politiche retributive e di governance delle imprese
I rapporti di forza all’interno delle imprese, tra lavoratori, manager e capitale, sono molto cambiati e hanno portato a un notevole spostamento di reddito dal lavoro al capitale, oltre che a una forte crescita delle sperequazioni all’interno del lavoro, a causa in primo luogo della forte crescita delle retribuzioni dei manager. Sono necessarie politiche che contrastino queste tendenze e ciò vale, con gli opportuni adattamenti, anche all’interno della Pubblica Amministrazione.
Politiche fiscali/tributarie
I modi nei quali le politiche fiscali possono contribuire alla riduzione delle disuguaglianze sono molteplici: correggendo la curva delle aliquote, affrontando in modo coerente il problema della tassazione dei patrimoni e dei lasciti ereditari, limitando il rischio di evasione e elusione fiscale, nelle molte forme in cui esse possono manifestarsi.
Le iniziative devono collocarsi a livello nazionale o sovranazionale, e in questo caso dovrebbero consistere nella promozione di misure in grado di assicurare un miglior coordinamento internazionale.
Politiche del welfare e dell’istruzione
E’ necessario intervenire sulla spesa sociale, la sua entità e la sua composizione, affrontare il problema della povertà, razionalizzando gli aiuti categoriali e migliorando la qualità di servizi pubblici essenziali, con una speciale attenzione alla garanzia dell’accesso per i più svantaggiati. Dovrebbero, inoltre, essere limitati gli svantaggi con i quali molti individui si presentano sul mercato del lavoro, in particolare con riferimento alle dotazioni di capitale umano che per quantità e qualità penalizzano specifici territori e chi proviene da background familiari svantaggiati. La spesa sociale dovrà anche favorire i processi di adattamento alle politiche per la concorrenza le quali possono causare costi per alcune categorie di lavoratori occupati nei settori prima protetti. In linea generale, noi pensiamo ad un’estensione della concorrenza dentro regole di mercato eque che non comportino perdite per chi sta peggio. Qualora alcuni costi fossero, però, il prezzo da pagare anche per favorire opportunità di accedere al lavoro da parte di soggetti oggi esclusi, allora vanno assicurate forme nuove di protezione ai perdenti. In altri termini, affinché, i costi sociali di breve periodo non oscurino i benefici diffusi nel tempo, è necessario un sistema di assicurazione sociale appropriato. L’introduzione della concorrenza nei settori “dispersi” può, infatti, destabilizzare un sistema di ammortizzatori sociali impropri, spesso iniquo oltre che inefficiente (se esclude dal mercato del lavoro le generazioni più giovani).
8. Le politiche proposte
Riforma delle istituzioni economiche e interventi sul contesto
a) Favorire la collaborazione tra Banche Centrali e Governi: l’autonomia delle Banche Centrali va tutelata, le Banche Centrali devono collaborare coi Governi per realizzare gli obiettivi da questi decisi, incluso quello della piena occupazione, nel rispetto delle regole economiche, frenando e contrastando eventuali pulsioni irrazionali della politica. Va rafforzata la collaborazione tra le Banche Centrali con l’obiettivo di pervenire gradualmente e progressivamente ad unificare la loro attività a livello globale. b) Superare la banca universale, riformare il sistema finanziario: le banche e i mercati finanziari sono stati l’epicentro della crisi del 2007-08. La capacità delle banche di creare moneta attraverso il credito, l’innovazione finanziaria e la conseguente finanziarizzazione delle economie ha enormemente aumentato l’entità degli scambi puramente finanziari rispetto a quelli diretti all’economia reale: le istituzioni finanziarie oggi si scambiano continuamente l’un l’altra sul mercato strumenti finanziari in misura enorme, molto maggiore di quanto avveniva 30-40 anni fa. Per esempio il valore dei derivati su prodotti petroliferi corrisponde oggi a 10 volte il valore della loro produzione mentre alcuni decenni fa era solo il 10%; il valore delle transazioni complessive sul mercato dei cambi è pari a 73 volte il valore delle merci scambiate. Tutto ciò è di dubbia utilità per l’economia reale, mentre consente enormi vantaggi al settore finanziario. Le banche sono oggi troppo grandi, troppo potenti e troppo pericolose; sono state la causa principale dell’eccessivo accumulo di debito, e quindi di instabilità, nelle economie, nonché di crescita delle disuguaglianze. Per questo vanno ridimensionate. Se non si vuole adottare la soluzione radicale di consentire solo alla Banca Centrale di creare moneta (riserve pari al 100% dei depositi), si potrebbero introdurre forme di garanzia obbligatoria da parte delle banche presso la Banca Centrale, come meccanismo di assicurazione nel caso di carenza di liquidità. Non è sufficiente tornare alla separazione tra banche commerciali e di investimento e neppure procedere alla separazione dell’attività in derivati da quella tradizionale della banca, che pure possono essere utili nel breve periodo. c) Introdurre una normativa sui sindacati che ne riconosca il ruolo fondamentale, ne rafforzi la posizione e ne definisca i ruoli all’interno di regole sulla rappresentanza atte a favorire una più equa distribuzione del potere anche nella gestione delle imprese. d) Riformare il finanziamento della politica: si tratta di una questione decisiva per la democrazia. Oggi il finanziamento privato illimitato, o con pochi limiti, permette alla plutocrazia di svolgere un ruolo dominante e favorisce la corruzione e influenze indebite in tutti (o quasi) i Paesi. Il finanziamento privato andrebbe limitato a cifre simboliche e quello
pubblico sottoposto a controlli stringenti (Corte dei Conti, o apposite agenzie). e) Contrastare con determinazione la corruzione e le mafie, che hanno molteplici e inaccettabili ricadute negative sulla disuguaglianza. Basti pensare alla concentrazione dei patrimoni criminali e alla violazione delle pari opportunità di partecipazione al processo produttivo.
Politiche macroeconomiche
a) Ridare centralità alle politiche pubbliche di promozione dell’occupazione dal cui livello e dalla cui qualità dipendono le disuguaglianze. In questa prospettiva andrebbero effettuati investimenti in infrastrutture che, grazie al loro elevato moltiplicatore, possono dare un rilevante contributo alla domanda e all’occupazione. Questo tipo di spesa in realtà sarebbe in grado di autofinanziarsi. La selezione della tipologia di investimenti da adottare andrebbe stabilita con regole da condividere a livello europeo. Andrebbero anche previsti finanziamenti europei almeno per quanto riguarda le infrastrutture di interesse comune. b) Smaltire e diluire il debito pubblico. La grande crisi del 2007-08, la recessione che ne è seguita, e le politiche di austerità indiscriminate hanno provocato un accumulo eccessivo di debito pubblico in tutti i Paesi. La ripresa della crescita è condizionata allo smaltimento e diluizione dello stock di debito accumulato in tutti i Paesi. A tal scopo potranno essere adottate politiche non dissimili da quelle che, dopo la seconda guerra mondiale, consentirono l’assorbimento graduale dei debiti accumulati in tempo di guerra. c) Tutelare e garantire il piccolo risparmio, ponendolo al riparo dalle possibili attività predatorie da parte del sistema bancario.
Politiche per la concorrenza
La politica delle concorrenza dovrebbe essere orientata a: a) Ridurre la disuguaglianza nei settori oligopolistici. In questi settori la rendita si traduce prevalentemente in extra-profitti e quindi l’applicazione rigorosa della disciplina della concorrenza e, in particolare, della lotta ai cartelli e del controllo della concentrazioni è efficace per “redistribuire” risorse dai percettori di rendite ai consumatori. b) Ridurre le rendite che si traducono in extra-costi. Se la rendita è soprattutto extra-costi, il contributo della politica della concorrenza alla riduzione delle disuguaglianze si manifesta non nell’immediato, ma nel medio periodo. Non per questo, però, la politica della concorrenza nei settori maturi caratterizzati da elevata frammentazione ovvero nel settore dei servizi pubblici locali deve essere meno rigorosa. c) Limitare gli effetti negativi del cambiamento tecnologico. Nei settori innovativi, per evitare che il cambiamento tecnologico e la concorrenza vengano vissuti più come minaccia che come opportunità, occorre innanzitutto non dare per scontati i benefici di cui oggi noi tutti, e in larga misura anche le categorie a più basso reddito, possiamo godere. Per non rinunciare alle opportunità offerte dall’innovazione, la politica della concorrenza deve aiutare a ridisegnare la regolazione dei settori maggiormente toccati dal cambiamento tecnologico
(mobilità, taxi, offerta alberghiera, ristorazione…) rimuovendo vincoli per chi già vi opera senza inutilmente appesantire le regole per i “nuovi entranti”. Per i “nuovi entranti”, per le piattaforme sul web, occorre evitare che la loro competitività si possa avvalere di ingiustificati vantaggi fiscali o che la flessibilità nelle relazioni industriali propria dei loro modelli di business si trasformi in condizioni di lavoro inaccettabili. In questa prospettiva va vista con favore l’introduzione di quella che oggi è comunemente nota come web tax. la cui efficacia dipende, peraltro, in modo cruciale dalla capacità degli Stati di adottare politiche coordinate. d) Nei settori caratterizzati da profondi cambiamenti tecnologici occorre, inoltre, contrastarel’utilizzo strumentale della copertura brevettuale (o più in generale della proprietàintellettuale) ogni qual volta questa miri non tanto a proteggere la remunerazione degli sforzi innovativi quanto piuttosto a ridurre gli spazi per il confronto concorrenziale possibile e ad ampliare ingiustificatamente la rendita monopolistica. e) Disciplinare i settori da cui più dipende il potere d’acquisto delle famiglie. La politica delle concorrenza dovrebbe includere tra le sue priorità non la esplicita lotta alle disuguaglianze ma un’applicazione rigorosa della disciplina antitrust in tutti i settori che maggiormente impattano sul potere d’acquisto delle famiglie e, in particolare, delle categorie di consumatori più svantaggiati (alimentare, farmaceutico, energia e gas, trasporto pubblico, comunicazioni…) con immediate ricadute positive sulla giustizia sociale e la percezione che si ha di essa. f) Migliorare la qualità, l’efficienza e l’accessibilità ai servizi pubblici (locali e non). Il raggiungimento di questi obiettivi, anche attraverso affidamenti competitivi ben disegnati, può senz’altro contribuire a ridurre le disuguaglianze di benessere: dell’accessibilità ai servizi e del loro miglior funzionamento beneficiano, infatti, soprattutto le categorie a più basso reddito.
Politiche retributive e di governance delle imprese
a) Introdurre regole indicative sui ventagli retributivi all’interno di imprese, organizzazioni e istituzioni. Per il settore pubblico, per le cooperative, ecc. tali regole dovrebbero essere obbligatorie e più restrittive rispetto al settore privato. Per le imprese private si potrebbe seguire la strada dell’incentivazione: ad esempio, sulla falsariga di alcune proposte
sviluppate dal Congresso degli Stati Uniti, si potrebbe limitare entro un dato limite, la deducibilità, nell’imposta sulle imprese, delle retribuzioni dei manager oppure riservare l’accesso alle gare per appalti pubblici alle imprese che non superino determinati ventagli retributivi. Le imprese private sarebbero, pertanto, libere di pagare quanto vogliono i propri dipendenti, ma non a danno dell’erario. b) Modificare le norme in materia di governance delle imprese, anche finanziarie, con lo scopo di superare l’ossessione per la massimizzazione del valore nel breve periodo e di dare maggior peso alla tutela degli interessi degli Stakeholders e non soltanto degli Shareholders. Molto rilevanti in questo contesto sono le modalità di retribuzione dei managers per gli effetti di incentivo che hanno sulle loro decisioni. A tal fine sarebbe inoltre necessario: a) abolire la possibilità del riacquisto di azioni proprie che è lo strumento principale di manipolazione del prezzo delle azioni al fine di estrazione di valore; b) mutare i criteri di retribuzione dei manager spostandoli dalle stock options, alla capacità di innovazione (nuovi prodotti a prezzi unitari più bassi), stabilità dell’occupazione e aumento delle retribuzioni; c) i lavoratori, gli investitori e i consumatori dovrebbero avere i loro rappresentanti nei consigli di amministrazione
Politiche fiscali
Alcune azioni di diversa natura potrebbero rendere le politiche fiscali nettamente più efficaci nel contrasto delle disuguaglianze. a) Proporre la costituzione di una World Tax Authority con il compito di uniformare le normative al fine di evitare l’elusione fiscale delle multinazionali, la concorrenza fiscale dannosa e le fughe verso i paradisi fiscali che penalizzano gli Stati nazionali. Nel frattempo si dovrebbe: a) rafforzare il BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE, riducendo adeguatamente la soglia prevista per il bilancio consolidato mondiale (oggi 845 milioni di dollari), attribuendo i profitti ai diversi Stati in base alle quote loro spettanti, e rendendo pubbliche le dichiarazioni; b) operare per l’approvazione della proposta di direttiva europea sul CCTB per le società di capitale (Common Consolidated Tax Base), che supererebbe in Europa i limiti della BEPS; c) equiparare a tutti gli effetti, amministrativi e penali, l’elusione fiscale e l’evasione, poiché si tratta di comportamenti sostanzialmente identici (non a caso l’elusione viene comunemente definita “l’evasione dei ricchi”). b) Combattere i paradisi fiscali. Oggi esistono nel mondo tra 60 e 90 giurisdizioni caratterizzate non solo da tassazione bassa o inesistente, ma da condizioni di segretezza e dalla possibilità di eludere la regolamentazione finanziaria (relativa alle società per azioni, alle banche, alla borsa, alle assicurazioni) e aggirare la normativa di altre giurisdizioni (per esempio in materia di riciclaggio, eredità, divorzio). Il sistema off-shore è di fatto controllato e promosso dalle principali banche del mondo. Le risorse collocate nei paradisi fiscali derivano per 1/3 da attività criminali in senso stretto, per alcuni punti percentuali da proventi della corruzione, e per la gran parte da elusione ed evasione fiscale. Le dimensioni del sistema fiscale sono enormi: la stime sono comprese tra i 7 e gli 8.000 miliardi di dollari (ma tale cifra non comprende l’elusione fiscale delle multinazionali, né i cespiti non finanziari: immobili, oro, preziosi, opere d’arte, ecc.) a 21.000-32.000 miliardi. I paradisi fiscali e il sistema off-shore hanno giocato un ruolo fondamentale nel modello di sviluppo degli ultimi 30 anni, iperliberista, deregolamentato, finalizzato alla massimizzazione del valore nel breve periodo. Questo sistema ha contribuito al finanziamento della globalizzazione, ma anche alla nutrita serie di crisi finanziarie degli ultimi decenni, ha provocato ed accentuato la crescita delle disuguaglianze, promosso e tutelato gli interessi dei ceti più abbienti di tutti i Paesi. Smantellare questo sistema dati gli equilibri politici prevalenti oggi nel mondo, è pressoché impossibile, ma mantenere alta l’attenzione, la critica e l’allarme può servire per lo meno a contenerne il ruolo e l’attività. c) Contrastare l’evasione fiscale che crea ingiustizie e disparità di trattamento. Chi evade le imposte contribuisce meno del dovuto al finanziamento dei servizi pubblici pur utilizzandolo come tutti gli altri cittadini. Si tratta di un comportamento parassitario che non può essere accettato. Né va dimenticato che l’evasione fiscale è sistematicamente associata alla corruzione e alle attività criminali. d) Ridisegnare la struttura delle aliquote delle imposte personali sui redditi, superando le strutture piatte, con poche aliquote o una sola aliquota, oggi prevalenti (che, a parità di gettito, penalizzano le classi medie e avvantaggiano i più ricchi) a favore di strutture con molti piccoli scaglioni ed aliquote, o di un prelievo secondo una funzione matematica
continua (come avviene in Germania). e) Introdurre una imposta personale progressiva sul patrimonio complessivo (mobiliare ed immobiliare) con una franchigia in grado di escludere i patrimoni di minore consistenza, e con aliquote basse, non superiori all’1%, riducendo contestualmente le imposte sui redditi. f) Riformare le imposte di successione, prevendo l’esenzione dei piccoli patrimoni familiari (fino a un milione di euro) e aumentando le aliquote sugli altri, ma soprattutto fornendo consistenti incentivi alla distribuzione dei patrimoni trasmessi in eredità anche fuori della cerchia familiare. Nella base imponibile andrebbe incluso il valore di mercato delle partecipazioni in imprese non quotate. g) Tassare i robot?: La questione è mal posta: non si tratta di tassare la tecnologia, ma di tener conto degli effetti che essa produce sulla distribuzione del reddito e sulla evoluzione delle economie e delle basi imponibili. La quota di valore aggiunto che va al lavoro si è ridotta negli ultimi 30 anni di oltre 10 punti percentuali; per mantenere il gettito e per non gravare troppo sui redditi da lavoro occorre spostare il prelievo su altre fonti di reddito. Ad esempio, i contributi sociali potrebbero essere sostituiti da un prelievo sull’intero valore aggiunto con effetti positivi per l’equità e per l’occupazione. In questo modo, il costo del lavoro si ridurrebbe drasticamente. h) Introdurre green taxes (sulle emissioni inquinanti ed altro) che possono consentire una
riduzione del prelievo contributivo sul lavoro, oltre che ridurre l’inquinamento che peggiora la qualità e la durata della vita, soprattutto dei più poveri.
Politiche del welfare e dell’istruzione
a) Andrebbe assicurato il sostegno alle famiglie mediante, da un lato, un sistema di assegni familiari tassabili, in modo da ridurre il beneficio al crescere dal reddito e, dall’altro lato, un serio investimento negli asili nido, strumento irrinunciabile ai fini delle pari opportunità oltre che della conciliazione fra cura e lavoro. b) Va assicurato un facile accesso a cure sanitarie di qualità per tutti i cittadini, evitando di trasferire sui più deboli il costo degli aggiustamenti di bilancio, sia esso nella forma di compartecipazioni elevate alla spesa, di un incremento dei tempi di attesa e di un più complessivo peggioramento dell’assistenza. A tal fine, è cruciale lo sviluppo di una nuova cultura della valutazione in grado di contrastare le tendenze all’incremento apparentemente incontrollabile della spesa sanitaria, tipicamente chiamato in causa per giustificare i tagli. Le innovazioni tecnologiche, naturalmente, possono migliorare la qualità dell’assistenza. La definizione dell’innovatività è, però, oggi lasciata in misura preponderante alle imprese, e la definizione dei prezzi di acquisto è spesso esentata da processi concorrenziali. Occorre, dunque, promuovere la ricerca indipendente e la trasparenza democratica nella scelta delle priorità d’intervento. Occorre, altresì, investire tutte le risorse disponibili nel miglioramento dei servizi universalistici, anziché nei sussidi alle assicurazioni private. Le evidenze empiriche comparate sono, infatti, concordi nell’indicare la superiorità di un assetto universalistico prevalentemente pubblico nella capacità di garantire i migliori risultati saluti con spesa più contenuta. La salute, però, dipende anche dalle disuguaglianze di reddito, di istruzione e dalla precarietà del lavoro. Ridurre le disuguaglianze in questi ambiti, serve, dunque, a ridurre anche le disuguaglianze nella salute. c) Va assicurato un reddito minimo dignitoso a tutti, sia attraverso le politiche ex ante di crescita inclusiva precedentemente richiamate, sia attraverso misure ex post, di redistribuzione. Centrale, in quest’ultima prospettiva, è uno schema di reddito minimo dignitoso, basato su forme eque di reciprocità. Troppo spesso, oggi, la tendenza, anche nei paesi che, a differenza dell’Italia, hanno un tale schema, è quello di richiedere comunque qualcosa in cambio, quasi come se le condizioni di povertà fossero sempre e comunque frutto di un’irresponsabilità individuale, da punire. Anche qualora disegnate al meglio, le politiche circoscritte ai poveri, si prestano tuttavia a diverse carenze (a buchi nella copertura, a “guerre fra i poveri” – fra i poveri che rientrano nel programma e quelli con risorse appena superiori alla soglia di povertà -, a divisioni fra “noi” e “loro”, a tensioni fra i rischi di dipendenza e richiesta di attivazioni che negano l’uguale cittadinanza). ll reddito minimo deve dunque avere una funzione residuale, di ultima istanza, per rimediare a quanto non assicurato dalla crescita inclusiva e dai trasferimenti (universali/quasi-universali) di sostegno al costo dei figli. d) E’ necessario elevare e uniformare la qualità delle scuole e dell’Università. Attraverso i programmi e la qualità dei docenti il servizio reso dovrebbe essere elevato di qualità e risultare uniforme su tutto il territorio nazionale. Data la situazione di partenza si renderanno necessari investimenti differenziati. Può anche essere necessario prevedere programmi supplementari e mirati, soprattutto nella formazione precoce, per chi proviene da background più svantaggiati. La necessaria selettività deve riguardare i livelli di istruzione post laurea. L’educazione permanente lungo l’intero arco della vita dovrebbe diventare un obiettivo fondamentale dei Governi.
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