
E’ l’unico film italiano che concorre al “Prix du Public UBS”, attribuito dagli spettatori della Piazza Grande di Locarno. Gli umori del pubblico sono spesso imprevedibili, ma “Amori che non sanno stare al mondo” di Francesca Comencini difficilmente verrà premiato. Il film è un adattamento del romanzo omonimo della stessa Comencini, figlia di Luigi e sorella di Francesca. Nelle intenzione vuole essere una commedia insieme brillante e romantica; colta ma anche popolare.
Gli “ingredienti”, sulla carta, potevano anche funzionare: c’è Claudia (interpretata da Lucia Mascino), docente universitaria cinquatenne inquieta e tormentosa, che deve uscire dal vortice provocato da una storia d’amore andata a ramengo, dopo sette anni trascorsi alla Petrolini: un po’ per noia, un po’ per non morire; c’è Flavio – Thomas Trabacchi –, anche lui docente universitario: è l’uomo col quale Claudia pensa di trascorrere il resto dei suoi anni; invece no: lui la lascia, per Giorgia, di vent’anni piu’ giovane: disposta a sposarlo e renderlo padre, cosa per Claudia inconcepibile. Claudia non si rassegna, insegue vanamente l’uomo, ogni suo tentativo fallisce, allaccia allora una relazione con la giovane Nina; alla fine decide di proseguire da sola il suo percorso…
Approccio interessante per certi versi, ma non si arriva mai al dunque, c’è sempre qualcosa di incompiuto, si resta fermi al bozzetto, tutto ha un po’ il sapore dell’artefatto. La sceneggiatura ha dei vuoti, i dialoghi restano appesi… I personaggi di Claudia e Flavio sono, alla fine, scontati nella loro definizione e struttura. Lo sai già quello che faranno; le indovini, le loro battute. L’una e l’altro sono dei clichè, neppure delle maschere allegoriche. I caratteri sono prevedibili: “noia”, alla fine; e non in senso moraviano. Lei, stucchevolmente passionale; lui rigido e controllato, un manichino senz’anima…
La cinquantenne Claudia in realtà è un’adolescente mai diventata adulta, dipendente dagli SMS del suo ex compagno, impegnata praticamente solo nel bla-bla con l’amica-confidente: insopportabile nel suo vittimismo e nella sua superficialità. E’ questa l’immagine che la Comencini ha della donna di oggi? La vuole davvero inchiodare in questo stereotipo? Ha voglia Lucia Mascino a esasperare i toni nell’evidente tentativo di strappare un sorriso. No, proprio non viene, e non è colpa sua.
Quanto a Flavio, anche lui non si salva: prototipo dell’uomo egoista e narcisista, privo di sensibilità e tutto proiettato nel suo ego. Neppure cattivo: piuttosto mediocre. Incredibile, lo si possa amare…
Ebbene, una coppia simile ci puo’ anche stare. Ma quello che appare poco credibile è il tentativo di farne la metafora di una generazione, di un intero mondo. Neppure convince l’artificio costituito da spezzoni di filmati in bianco e nero che, intervallati, devono, secondo le intenzioni degli autori permettere un confronto con la condizione femminile degli anni passati. L’intenzione, evidentemente, è quella di mostrare e indicare un percorso di “liberazione”, di matura, consapevole, legittima indipendenza; sarà per un’altra volta.
La giornata, se cosi’ si puo’ dire, si salva grazie a “Favela Olimpica”, del regista svizzero Samuel Chalard. Si viene condotti a Rio de Janeiro, anno 2016, quello delle prime olimpiadi sud americane; la favela Vila Autodroo, creata nel 1998 per un migliaio di famiglie, è considerata incompatibile con il nuovo Parco olimipico. Il sindaco Eduardo Paes decide di “bonificare” l’area. Non è cosi’ semplice: gli abitati della favela si oppongono.
Chalard fa sapere che ha pensato a questo film fin dal 2009, “dopo aver visto gli effetti delle precedenti olimpiadi sulle popolazioni locali”. “Favela olimpica” racconta giorno dopo giorno le storie incrociate e le tappe di una lotta di chi rivendicata il diritto di non essere costretto a traslocare cedendo alle “ragioni” della speculazione edilizia. Il pregio del documentario è la sua essenzialità, e il non santificare o demonizzare nessuno. Si “limita” a mostrare come dietro grandi eventi ci siano sempre piccoli mondi, destinati a essere sacrificati in nome di interessi “maggiori”.
Infine, “Das Kongo Tribunal”, del regista berlinese Milo Rau, Ci ricorda che in oltre vent’anni di feroce conflitto, in Congo siano stati uccisi oltre sei milioni di persone. Massacri impuniti e dimenticati, in un paese che detiene i principali giacimenti di materie prime indispensabili all’industria high-tech, e questo spiega praticamente tutto. Rau riunisce vittime e oppressori, testimoni e rappresentanti di organizzazioni non governative, in una sorta di “tribunale” che ci celebra nel Congo orientale. Tre i casi emblematici: il massacro di una trentina di persone senza che polizia e Caschi blu dell’ONU muovano un dito; e due conflitti legati alle ricche miniere e giacimenti di materie prime. Alla fine, nessuno si puo’ dire innocente; e in questo caso, se tutti sono colpevoli, significa che davvero tutti lo sono.
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