
Commentando in una nota stampa i risultati del Settimo Rapporto RBM-Censis sulla sanità pubblica, privata e intermediata, il senatore Francesco Campanella di Articolo1-Mdp ha scritto: “Nell’ambito della sanità, più ancora che per il resto del welfare, un segno di profonda discontinuità è diventato non solo necessario, ma improcrastinabile. Non si gioca con la vita delle persone”. Nell’intero settore della sanità è accaduto un cambiamento, dice il Censis, che ha prodotto una flessione delle risorse pubbliche e un aumento fino a 37 miliardi e oltre del fatturato delle aziende private. Così, nel 2016, sono state 12.200.000 coloro che hanno dovuto rinunciare alle cure per mere ragioni economiche, un milione e 200mila in più rispetto al 2015.
La spesa pubblica per la Sanità più bassa d’Europa, 6,8% del Pil
È stato pubblicato lunedì il settimo Rapporto RBM-Censis sulla sanità pubblica, privata e intermediata, presentato in occasione del Welfare Day 2017 con il patrocinio del Ministero della Salute. L’Italia continua ad avere una spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil inferiore a quella di altri grandi Paesi europei. Nel nostro Paese è pari al 6,8% del Pil, in Francia all’8,6%, in Germania al 9%. In questi anni il recupero di sostenibilità dei servizi sanitari regionali non è stato indolore. È salito a 12,2 milioni il numero di persone che nell’ultimo anno hanno rinunciato o rinviato almeno una prestazione sanitaria per ragioni economiche (1,2 milioni in più rispetto all’anno precedente). Il miracolo del recupero di sostenibilità finanziaria del servizio sanitario di tante Regioni ha impattato sulla copertura per i cittadini. Il più alto ricorso alla sanità pagata di tasca propria ha come contraltare il fatto che chi non ce la fa economicamente è costretto alla rinuncia o al rinvio di prestazioni.
I tempi biblici di attesa negli ospedali pubblici
Le difficoltà di accesso al sistema pubblico sono aumentate. Le liste d’attesa sono sempre più lunghe. I dati del settimo Rapporto RBM-Censis sulla sanità pubblica, privata e intermediata indicano che per una mammografia si attendono in media 122 giorni (60 in più rispetto al 2014) e nel Mezzogiorno l’attesa arriva in media a 142 giorni. Per una colonscopia l’attesa media è di 93 giorni (6 giorni in più rispetto al 2014), ma al Centro di giorni ce ne vogliono mediamente 109. Per una risonanza magnetica si attendono in media 80 giorni (6 giorni in più rispetto al 2014), ma al Sud sono necessari 111 giorni. Per una visita cardiologica l’attesa media è di 67 giorni (8 giorni in più rispetto al 2014), ma l’attesa sale a 79 giorni al Centro. Per una visita ginecologica si attendono in media 47 giorni (8 giorni in più rispetto al 2014), ma ne servono 72 al Centro. Per una visita ortopedica 66 giorni (18 giorni in più rispetto al 2014), con un picco di 77 giorni al Sud. In questo contesto cresce l’attenzione verso la sanità integrativa, che potrebbe mettere in moto risorse pari a 15 miliardi di euro l’anno, come confermato anche dalle proiezioni di Rbm.
L’inutile polemica del Ministero della Sanità che contesta i dati Censis ma non dice perché si riduce la spesa pubblica
La responsabilità di questa situazione è, come denuncia Francesco Campanella, Mdp, delle politiche di austerità nella spending review delle risorse pubbliche. Infatti, “il criterio del pareggio di bilancio portato al livello di principio costituzionale ha tagliato le gambe ai servizi pubblici e ci ha trasformati in un popolo che non può curarsi se non con le proprie sostanze”, e inoltre “con la spending review sulla sanità piuttosto che comprimere le inefficienze si sono ridotti i servizi: evidentemente le inefficienze sono apparse molto meno comprimibili dei diritti dei cittadini”. Naturalmente il Ministero della Salute ha cercato di gettare acqua sul fuoco delle polemiche, sostenendo che i dati forniti dal Censis sono contraddetti dai dati Istat. Tuttavia, ammette il Ministero, entrambi gli istituti hanno fornito proiezioni sulla base di interviste a campioni di popolazione. Perciò le interviste dell’Istat dicono che sono 3,9milioni coloro che l’anno scorso hanno rinunciato a una prestazione sanitaria specialistica per ragioni economiche, mentre sono 5 milioni complessivamente coloro che hanno dovuto rinunciare a una o più prestazioni, e dunque meno della metà rispetto al calcolo, che il ministero ritiene esagerato, fornito dal Censis. Dove risiede il trucco rilanciato dal Ministero della sanità? Nel fatto che il Censis parla esplicitamente di rinuncia o rinvio, mettendo nel calderone statistico anche coloro che, come ad esempio tanti pensionati e lavoratori a tempo determinato, hanno dovuto operare loro malgrado una procrastinazione a tempi migliori. Tra rinuncia e rinvio c’è una enorme differenza, e al Ministero della salute lo sanno bene. Però occorre sempre dire, da parte del governo, che in Italia si esagera coi dati sulla povertà, come se quei 5 milioni di persone, di cui parla il ministero, che non si curano per ragioni economiche fossero invece un sospiro di sollievo, perché Censis parla di 12.200.000. Sarebbe stato meglio se la ministra Lorenzin avesse invece dato conto della notevole riduzione della spesa sanitaria pubblica e il contemporaneo aumento dei profitti delle aziende sanitarie private. Ma si sa, di questo a fine luglio, meglio non parlarne.
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