
Nel disinteresse generale in Europa si sta attuando un vero e proprio colpo di mano. È in stadio avanzato, infatti, l’iter della nuova direttiva comunitaria in materia di “fornitura di servizi di media audiovisivi” (Avms), volta ad aggiornare quella del 2010 (2010/13/Ue), ma persino più delicata essendo ormai compiuta la transizione all’ambiente digitale. Ora, dopo la proposta iniziale del “governo” di Bruxelles e la lettura in seno alla Commissione cultura cui non ha lesinato qualche critica Silvia Costa, è in corso il negoziato con il Consiglio: prima del varo definitivo che richiede una vera e propria triangolazione. La procedura di conciliazione. È al lavoro l’apposito comitato parlamentare (Cult), che ha ipotizzato un compromesso. Pessimo. Infatti, mentre gli incombenti Over The Top (da Google, a Facebook, ad Amazon, ad Apple) vengono appena sfiorati dalla regolamentazione, il vecchio e prepotente mondo televisivo vede cancellate quelle poche norme che pure hanno evitato il peggio del peggio. La gloriosa direttiva-madre – la 552 del 1989 – è ormai messa in soffitta.
Era l’epoca della “diversità culturale” trainata dall’allora ministro francese Jack Lang e della straordinaria mobilitazione degli autori contro le interruzioni selvagge dei film. Poi il declino liberista. Mentre gli antichi broadcaster ingrassavano a scapito dei giornali e delle emittenti locali, si appalesavano non previsti i giganti della rete, veri e propri aggregatori di dati e di contenuti. Le culture giuridiche non si sono realmente aggiornate e la prova provata è proprio la presunzione di mettere tutto e tutti insieme, in un’unica direttiva. Con il risultato di fare il solletico agli oligarchi digitali e di eliminare persino l’ultimo ancoraggio di una legislazione antitrust: i limiti di affollamento pubblicitario. Finora si sono tenute in vita due percentuali, il 20% sulla programmazione giornaliera e il 18% sull’ora di trasmissione. Vecchia contesa degli anni d’oro della televisione e della stessa pubblicità – gli Ottanta/Novanta. Allora l’accaparramento di spot e telepromozioni era lo strumento per dominare il settore.
Oggi, più amaramente, è un volgare riflesso di autodifesa, per fare baldoria l’ultima notte, come in una festa di addio al celibato. Il giorno dopo arriveranno i predatori tecnologici e i principi del “Mediaevo” saranno inghiottiti dai protagonisti del millennio. La sola Apple ha più solvibilità di Regno Unito e Canada messi insieme, per dire. Si dà la possibilità ai singoli Stati di introdurre il 20% nelle principali fasce orarie, ma campa cavallo. In pieno “Patto del Nazareno”, è ben difficile immaginare che l’Italia faccia la prima della classe. Ed è anche vero che la presidenza maltese, di turno, sta tentando di alleggerire la tensione. Ma è improbabile che lo sforzo abbia successo. Servirebbe un’iniziativa forte di numerosi parlamentari europei, pronti a farne una lotta concreta, la condizione preliminare per incidere poi sul riassetto futuro del sistema.
L’importante direttiva “Tv senza frontiere” del 1989 segnò una stagione, con la promozione e la difesa delle opere europee, oltre ai vincoli sull’advertisement. Il nuovo articolato smantella gli ultimi baluardi e non dà garanzie né al cinema né all’audiovisivo né alla creatività digitale. Blando e rischioso. Debole e fuori tempo.
P.S. Martedì 23 maggio è apparsa (finalmente) in Gazzetta Ufficiale la Convenzione Stato-Rai. Si scrive nel testo che il legale rappresentante dell’azienda è “…..”. Senza carica, senza nome. Strano, no? Campo Dall’Orto si sarebbe dimesso il venerdì successivo. Il governo, nel consegnare le bozze alla Gazzetta, già sapeva? Dietristi e complottardi scatenate la vostra furia (intellettuale).
Dal quotidiano Il Manifesto del 31 maggio 2017
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