
Decine di igliaia di persone hanno attraversato le strade di Londra in un corteo lunghissimo, nel pomeriggio del 25 marzo, per manifestare a favore della permanenza in Europa, mentre a Roma si celebrava la firma dei 27 leader, senza la Gran Bretagna, sul documento comune che annuncia una presunta ritrovata unità del continente. A Londra, i manifestanti hanno concluso simbolicamente la loro marcia a Westminster, nella piazza dello storico Parlamento britannico, e teatro alcuni giorni fa di un attentato in cui hanno perso la vita un poliziotto, quattro civili e lo stesso attentatore. Hanno osservato un minuto di silenzio per le vittime, per poi dare luogo alla loro protesta: “prima di parlare della Brexit”, hanno detto gli organizzatori della grande manifestazione londinese, “dobbiamo riconoscere che qualcosa di veramente orribile è accaduto non lontano da qui, l’altro giorno”. Lo ha detto Alastair Campbell, l’ex portavoce di Tony Blair. “Sfidiamo coloro che vorrebbero terrorizzarci”, ha aggiunto Tim Farron, il leader liberaldemocratico, che ha proseguito: “ci ribelliamo perché la democrazia non è finita il 23 giugno”, giorno della celebrazione del referendum in cui vinse, per poco, l’opzione Brexit.
Farron ha affermato di parlare a nome di quel 48% di cittadini britannici che hanno votato per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, ed ha sostenuto che anche molti elettori della Brexit non sarebbero affatto d’accordo con la politica di “hard Brexit”, uscita feroce, del premier Theresa May, perché temono che lasciando così velocemente e brutalmente la UE si possa cascare nelle braccia peggiori di quel Donald Trump che ormai è protagonista negativo della scena internazionale. A proposito della May, Farron ha concluso: “lei non parla a nome del 52%, lei parla a nome di uno scarso 5%”. Seb Dance, parlamentare laburista di Londra, ha usato un tono analogo contro la May, sostenendo che i sostenitori della Brexit sono gli unici “ad aver negato la realtà”, e auspicando che i cosiddetti “remaniners”, ovvero i sostenitori della permanenza, non perdano la speranza di roversciare il corso delle cose: “non dobbiamo abbatterci, ma continuare la lotta per ciò in cui crediamo”. La protesta era stata organizzata da Unite for Europe, un gruppo variegato di organizzazioni che stanno mobilitandosi per “limitare i danni” della Brexit, insieme con altri gruppi pro-europeisti.
Sul sito di Unite for Europe campeggia il messaggio in cui si spiegano le ragioni che hanno sostenuto la mobilitazione del 25 marzo: “siamo il 48% che ha votato contro la Brexit e coloro ai quali non è stato permesso di votare contro – i giovani e i cittadini UE che vivono, lavorano e pagano le tasse nel Regno Unito. Siamo offesi dall’attuale direzione impressa dal governo nell’affrontare il risultato del referendum”. E poi, sui cartelli dei manifestanti si poteva leggere: “domani gli orologi andranno avanti di un’ora. Un mercoledì sono andati di 40 anni”, riferendosi a quel mercoledì 23 giugno del referendum. Un altro cartello: “e come vinceremo l’Eurovisione adesso?”, con molto humor britannico si fa riferimento all’appuntamento canoro.
In realtà, i manifestanti chiedono anche di tornare indietro rispetto alla decisione di dare inizio fin dal prossimo 29 marzo alle procedure previste dall’articolo 50 del Trattato che istituisce l’Unione Europea. Credono che occorra del tempo, anzi più tempo per una decisione storica, importante, e decisiva, non solo per i britannici, ma per tutti i popoli d’Europa.
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