
Arriveranno da tutta Europa, salvo dalla Gran Bretagna che si è chiamata fuori, per celebrare lo storico evento, sessanta anni dal momento in cui nasce la prima “bozza” di quella che dovrà diventare attraverso vari, e non indolori passaggi, la attuale Unione Europea. Li ricordiamo perché se ne è persa anche la memoria, si dimenticano gli errori, tanti, i passaggi positivi, pochi, vista la “criticità” che oggi rende impossibile perfino mettere a punto un documento sia pure celebrativo, come si conviene in queste occasioni, ma che dia perlomeno indicazioni chiare su come superare la crisi attuale. L’Europa a Roma cercherà se stessa ma troverà solo una capitale blindata. Nell’area del Campidoglio dove si svolgerà la “cerimonia” la blindatura sarà totale. Sono impegnati circa tremila agenti. I turni delle forze armate sono revocati, sorveglianza ventiquattro ore, sono previste sei manifestazioni di chi si oppone alla Unione Europea. Arrivi di black bloc sono annunciati da Francia, Germania, altri paesi. Sono previste cinque manifestazioni di “oppositori”. Vietate maschere, copricapo, bastoni. È prevista una conferenza stampa a 5: presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, primo ministro di Malta Joseph Muscat, presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Il clou, la firma del documento “celebrativo”, gli impegni per l’Europa.
Il lavoro difficile degli “sherpa”: un documento generico tale da poter essere firmato dai 27 leader
Gli “sherpa”, coloro che sono stati incaricati di mettere a punto la bozza che i 27 leader europei dovrebbero firmare sabato in Campidoglio, hanno fatto un lavoro difficile, di cesello, per evitare rotture. Basterà dire che quelle “due velocità” di cui hanno parlato più volte i leader tedeschi, francesi, spagnoli, italiani stando alla ultima bozza si sono stemperate in “agiremo insieme quando possibile, con ritmi e intensità diversi quando sarà necessario, come abbiamo fatto in passato all’interno della cornice dei trattati e lasciando la porta aperta a coloro che vogliono unirsi dopo. La nostra Unione non è divisa ed è indivisibile”. Sparisce la parola “speed” che in inglese vuol dire velocità. Dovrebbero essere soddisfatti tutti coloro, polacchi, ungheresi, sloveni, slovacchi in testa, il “Fronte dell’Est”, capeggiato dalla Polonia governata dai fedelissimi di Jaroslaw Kaczynski, che non vuole ulteriori cessioni di sovranità a Bruxelles. Stando alla lettura della poco più di una paginetta anche il tema dei migranti che interessa molto il nostro Paese, tema di battaglia di Renzi Matteo non trova soluzione. Così come il “problema” che porta il nome di populismo, le pulsioni razziste, xenofobe, viene stemperato. Meglio forse non inquietare Putin e Trump, e i loro amici, e ce ne sono in questa Europa.
La parola “democrazia”, quasi un tabù. Quanto è lontano il Manifesto di Ventotene
Il problema vero al di là delle “velocità” è la democrazia, una parola che suona male alle orecchie dei paesi dell’ex blocco sovietico. E che di rado viene pronunciata nelle sedi della Unione europea, quasi un tabù. Per quanto abbiamo letto non troverebbe spazio neppure nel documento conclusivo, magari anche solo un accenno alle libertà individuali, alla libertà dell’informazione, della cultura. Gli autori del tanto celebrato “Manifesto di Ventotene”, siamo certi, là dove sono ora, non la prenderanno molto bene. “Per un’Europa libera e unita” è il documento scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann tra il 1941 ed il 1944 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, che sarà poi pubblicato da Eugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la prefazione. Di quel testo si è perso traccia e memoria, salvo qualche cerimonia propagandistica come quella allestita da Renzi Matteo, allora ancora premier, con invito a Merkel e Hollande. Quasi una gita turistica, con deposizione di fiori alla tomba di Spinelli.
Le tappe più importanti nella lunga e difficile storia della Unione europea
Di quel “manifesto” c’è rimasto ben poco nella storia di questi sessanta anni. I titoli: nel 1957 nasce la Comunità economica europea (Cee), paesi fondatori: Italia, Francia, Germania ovest, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo. 1973: entrano il Regno Unito, Danimarca e Irlanda. 1979: per la prima volta si svolgono le elezioni per il Parlamento europeo. 1981-86: entrano Grecia, poi Spagna, Portogallo. 1989: Cade il muro di Berlino, si sfalda l’Unione sovietica, entra anche la Germania Est riunificata. 1992: trattato di Maastricht con l’adozione della moneta unica. 1995: L’Unione si allarga a Austria, Finlandia, e Svezia. Resta fuori la Norvegia. 1995: Accordi di Schengen: In Francia, Germania, Benelux, Spagna e Portogallo entrano in vigore per la libera circolazione delle persone. Alla fine del 1997 ne entra a far parte l’Italia. 1998: nasce la Banca Centrale europea. 2001: Trattato di Nizza. Allargamento ad Est. Entrano Cipro, Malta, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia. 2002: L’euro entra in circolazione in 11 Paesi che arriveranno fino a 19. 2004: Viene firmato a Roma il trattato che adotta una costituzione per l’Europa, bocciata però da referendum olandese e francese. 2009: trattato di Lisbona recepisce i principi della Costituzione bocciata e rilancia l’azione europea. 2016: Il referendum (Brexit) vede i cittadini del Regno Unito chiedere l’uscita dall’Unione, con il 51% dei voti favorevoli.
Gli interventi di Mattarella, Grasso, Boldrini non oltre l’ufficialità
Che questo sia il quadro pieno di incertezze lo dimostra anche l’apertura delle cerimonie che si è tenuta alla Camera, con l’intervento della presidente Boldrini alla presenza del presidente della Repubblica, Mattarella e di quello del Senato, Grasso. Aula gremita, assenti i leghisti, il solo Bossi ha partecipato. Nei loro interventi non sono andati oltre generici appelli all’unità, pure importanti, testimonianze di una volontà di superare le difficoltà e riprendere un cammino interrotto. Dice Mattarella che “L’Europa appare ripiegata su se stessa, consapevole nei suoi vertici dei passi da compiere, ma incerta nel seguirli”. “Non impossibili ritorni al passato – prosegue – che non c’è più, non muri che scarichino i problemi sugli altri senza risolverli, bensì solidarietà tra i paesi, fra generazioni, fra cittadini che condividono una stessa civiltà”. La Boldrini ricorda che la “fine del progetto europeo condannerebbe il nostro continente alla irrilevanza e alla marginalizzazione”. Grasso avverte “il pericolo della disgregazione”. Già, ma come uscire da questa situazione, come dare nuova linfa al processo unitario, quale Europa costruire?
Presidente Eurogruppo sbrocca. Nel sud Europa, “vi sbronzate, andate a donne, chiedete soldi alla Ue”
Mentre questi sono gli interrogativi sui quali le forze politiche, i governi europei dovrebbero dare risposte, anche in modo dialettico, la polemica di giornata porta alla ribalta una frase, sciocca, grave, pronunciata dal presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che appartiene al partito socialista europeo. Riferendosi ai Paesi del Sud Europa intervistato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto: “Non si possono spendere tutti i soldi in alcool e in donne poi chiedere aiuto”. Poi ha precisato: “Se si vuole mantenere la solidarietà occorre anche parlare di rispetto degli obblighi”. Non si è scusato e subito Renzi Matteo ha detto che “ha perso un’ottima occasione per tacere. Penso che gente come lui, che pure appartiene al partito socialista europeo, anche se forse non se ne è accorto, non meriti di occupare il posto che occupa. E prima si dimette , meglio è”. Poi aggiunge: “Se vuole offendere l’Italia – prosegue – lo faccia al bar sport sotto casa sua, non nel suo ruolo istituzionale”. E già che c’è rilancia “la proposta di far svolgere le primarie per i ruoli di responsabilità in Europa che penso sia fondamentale”. Critiche sono arrivate da molte parti, da Prodi, ai diversi leader italiani ed europei, da Bersani a Brunetta a Prodi a Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Giusto rispondere al presidente dell’Eurogruppo, ma qualche parola, a partire da Renzi che sempre più è apparso come un “neopopulista”, sul come uscire dalla crisi, la più acuta dicono a Bruxelles, vissuta nei sessanta anni, poteva essere detta.
Carlo Galli (Mdp). Il bisogno di una cultura politica democratica, non di tecnocrazia e ipercapitalismo
“L’Europa va ridefinita” – ha scritto sul nostro giornale Carlo Galli, deputato del Mdp, ordinario di storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna, un articolo in cui ha evidenziato dieci punti per affrontare la crisi della Ue. In particolare ha sottolineato che l’Europa va ridefinita “come spazio di pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di servizi – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le cornici delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo”.
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