
Anche se le elezioni si allontanano, dopo che Gentiloni ha annunciato di rimanere fino al termine della legislatura, un po’ di propaganda elettorale non guasta, non si sa mai. Così deve aver pensato il ministro Carlo Calenda, uomo dalle molte ambizioni, un renziano che si è smarcato appena ha sentito odor di bruciato. La sua prima mossa è stata quella di dichiarare che con la politica dei bonus non si va da nessuna parte. Giusto, ma lo poteva dire anche prima. Ora si è posto un obiettivo molto ambizioso, quello di riportare in Italia i call center e creare 20 mila posti di lavoro. Calenda è ministro dello sviluppo economico ma fino ad oggi non vi sono segnali che la politica del suo ministero abbia segnato qualche punto positivo. Figuratevi, non si può che applaudire. Quando senti, se ne hai necessità, qualcuno che parla anche male la nostra lingua, e non sai neppure da che parte del mondo risponde alla tua telefonata, quando pensi che fa questo lavoro in modo ancor più precario dei suoi colleghi italiani, senza alcuna assicurazione, con un salario da fame, e anche quelli che operano in Italia non sono certo nababbi e ben conoscono il precariato e i licenziamenti, leggi Almaviva, ti verrebbe da applaudire alle intenzioni del ministro Calenda.
Lo scribacchino si esalta: una mossa alla Trump, Italy first, Italia prima di tutto
Una “operazione di reshoring”, la chiamano al ministero per lo sviluppo economico, in italiano “il rientro” di aziende che se ne erano andate all’estero, l’offshoring, lo sappiamo anche noi. Lo scribacchino si esalta e scrive “Una mossa alla Trump, per dire: Italy first, l’Italia prima di tutto”. Quando abbiamo letto la notizia abbiamo subito pensato al Piano “Industria 4.0” messo a punto da Calenda, un progetto collegato alla nuova rivoluzione industriale, con grandi ambizioni, nuovi posti di lavoro, investimenti e cose simili. Tutto sulla carta, in effetti non c’è né industria né 4.0. Così sono solo una idea quei 20 mila posti di lavoro possibili con il rientro dei call center. Quando abbiamo letto il titolo su Repubblica , lo confessiamo, avevamo creduto che si trattasse di una cosa seria. Il quotidiano-bollettino renziano, magari ora ci stanno ripensando, titolava: “Call center. Il piano di rientro del governo”. Significa che c’era un piano, cotto e mangiato. Niente di tutto questo. “Carlo Calenda – scrive il quotidiano di De Benedetti – è pronto a convocare i principali committenti italiani – le aziende di telecomunicazioni, energia, banche, assicurazioni, tv a pagamento, multiutility – e invitarli a firmare un Protocollo di intesa con cui si impegnano a svolgere il 100% delle attività interne, quelle cioè che utilizzano strutture e personale proprio, sul territorio nazionale senza reindirizzare il traffico al di fuori del Paese. E soprattutto a garantire che almeno l’80% dei volumi di chiamate dei call center affidati all’esterno, ovvero in outsourcing, sia effettuato in Italia”. Insomma l’iniziativa del ministro è solo una convocazione delle aziende che operano in questo settore ed hanno effettuato “offshoring”, ci piace la parola, la lingua inglese fa sempre effetto, non il contenuto. Esplosione di gioia da parte dei sindacati del settore aderenti a Cisl e Uil perché il ministro “dà attenzione a un mondo abbandonato a se stesso”. E già che c’è chiedono una convocazione. Per discutere una cosa che non c’è, un piano confuso, parole su parole.
Del Cimmuto (Slc Cgil): un incentivo per andare all’estero
Una proposta “inefficace, elettoralistica”, la definisce il Slc Cgil, il sindacato dei lavoratori delle comunicazioni, il cui segretario, Marco Del Cimmuto, fa notare che “stabilire un tetto del 20% alle delocalizzazioni, perché di questo si tratta, non significa solo riportare posti in patria, ma anche incentivare chi non l’ha ancora fatto ad andare all’estero, per un 20% appunto”. Il Protocollo, ancora non reso noto, che dovrebbe stare a base del “rientro ignora interventi urgenti che si rendono necessari. Ne indichiamo quattro. Primo – dice -superare le gare a minutaggio di conversazione (ti pago tot centesimi al minuto, ma difficile farne più di 40-42 in un’ora) per passare alle gare a corpo (ti pago tot ore a prescindere dalle chiamate). Secondo, inserire l’obbligo di rispondere al cliente in un tempo limitato: un requisito che elimina dal mercato le imprese che si improvvisano call center, senza averne l’organizzazione. Terzo, divieto assoluto di gare in subappalto. Quarto, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non da contrattare di anno in anno nella finanziaria. In conclusione, non vorremmo che il Protocollo risenta del contesto anche politico. Che sia cioè un provvedimento spot, dal carattere vincolante assai basso, affidato alla singola volontà dei committenti e di chiaro stampo elettoralistico”.
Assocontact (Confindustria). È necessaria una vera riforma del settore
“Il Protocollo non è obbligatorio, impegna solo le aziende che desiderano partecipare a questo percorso”, sottolinea Paolo Sarzana, presidente Assocontact, associazione nazionale aderente a Confindustria digitale. “Non sono previsti parametri vincolanti o precisi su come erogare i servizi, né obblighi per le aziende ad essere in regola con il Durc e dunque a pagare i contributi ai lavoratori, o ad avere un sistema di certificazione di qualità. Senza paletti chiari e inequivocabili, lo sforzo apprezzabile del ministro rischia di trasformarsi in una moral suasion generica”. Parla della necessità di “una vera riforma del settore, una legge che obblighi tutti a rispettare regole più stringenti”. Se lo dicono loro, forse Cisl e Uil potrebbe calmare i bollenti spiriti.
Il “miracolo” dei ventimila nuovi posti di lavoro
Infine il “miracolo” dei ventimila posti di lavoro. È presto spiegato. Nei call center lavorano circa 😯 mila italiani. Molte aziende italiane utilizzano call center esteri, perché hanno un costo del lavoro molto più basso. Si tratta di circa 25 mila addetti tra Romania, Albania, Polonia, Croazia, Tunisia, Marocco che operano per l’Italia. Cancellando l’80% di queste commesse si creerebbero quei 20 mila posti di cui parla il ministro. Ma altre aziende che operano interamente in Italia potrebbero cogliere la palla al balzo ed usufruire di quel 20% che il piano Calenda autorizza come una specie di “diritto all’espatrio”.
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