
Renzi come De Luca. Il governatore della Campania aveva intimato ai sindaci di portare a votare per il sì per il referendum costituzionale un certo numero di elettori, qualche migliaio. E aveva detto guai a voi se sgarrate, se non mantenete gli impegni. Sappiamo com’è finita, una sconfitta, uno schiaffone. Come il De Luca l’ex premier chiama a raccolta tutti i suoi. L’ assemblea nazionale si trasforma in una sorta di adunata di militari quando si presentano all’alzabandiera. Nessuna assenza è giustificata. Tutti ai suoi ordini a garantire che il Congresso si svolgerà quando e come vuole lui. Gli serve la maggioranza assoluta degli aventi diritto per anticipare l’assemblea congressuale. Il Congresso, insomma, come la sua grande rivincita, emarginare definitivamente le minoranze, sfiduciare il governo Gentiloni, al voto subito, al massimo a giugno. Mostrava il suo vero volto. Dimenticava, come poi vedremo, che doveva fare i conti con i referendum promossi dalla Cgil, per cambiare il Jobs act, ripristinare i diritti dei lavoratori violati dalla abolizione dell’articolo 18, eliminare i voucher, garantire chi lavora in imprese di appalto. Insieme a tre quesiti referendari, sostenuti da più di tre milioni di firme, una proposta di legge di iniziativa popolare, la Carta dei diritti universali del lavoro presentata alla Camera, in calce più di un milione di firme.
Piangono l’ex premier che però non lascia la politica e la Serracchiani
Tutti o quasi, in un primo momento, avevano dato atto al Renzi Matteo di essersi comportato da gran signore, ha mantenuto la promessa, aveva detto che si dimetteva se veniva sconfitto, lo ha fatto, magari anche con qualche lacrimuccia, non guasta mai, teneramente abbracciato dalla moglie, accompagnato dai figli. Insomma la sacra famiglia, non guasta mai. E’ un pregio italiota. Magari litigano a morte, ovviamente non ci riferiamo alla famiglia del giovanotto di Rignano, residente a Pontassieve, ma in pubblico, come si dice, non fate trasparire niente. Alla lacrima è ricorsa anche da Deborah Serracchiani, governatore della Regione Friuli Venezia Giulia. Replicava agli interventi dei consiglieri sul bilancio. “Subisco solo attacchi personali”, ha replicato a chi la attaccava. Beve un bicchier d’acqua, venti secondi, spunta una lacrima, se l’asciuga con un fazzoletto. Lei è anche vicesegretario del Pd. Si deve essere detta, se si commuove il segretario, anch’io ho diritto al pianto. Ci viene da fare solo una osservazione. Gli attacchi personali sono sempre una brutta cosa. Ma chiediamo a Serracchiani quante lacrime dovrebbe versare Massimo D’Alema, accusato perfino di far parte di una “accozzaglia”. Gli ci vorrebbero pacchetti di kleenex sempre a disposizione. Renzi Matteo, in effetti, dimettendosi non aveva tenuto fede ad alcunché. Perché non era passato un attimo dalla lacrimuccia che nella notte, con un messaggio strappa lacrime, faceva capire che restava in campo, non abbandonava la politica, come aveva annunciato. Imitato, del resto, da Maria Elena Boschi che invece di tornare a casa è tornata a Palazzo Chigi, ad occupare un posto da numero due del governo.
Congresso anticipato, rivincita e plebiscito, un uomo solo al comando
Tutto in discesa per Renzi verso nuove elezioni? Il congresso solo un burla, la sua apoteosi. Il dibattito, a partire dai Circoli, la partecipazione degli iscritti, la famosa “base”, neppure a parlarne. Solo primarie nazionali. Ma per tenere un congresso anticipato il segretario dovrebbe dimettersi. Manco per sogno. Palazzo Chigi è nei suoi pensieri giornalieri. Non sa che fare, come passare il tempo. Pontassieve gli sta stretta. Potrebbe recarsi al Nazareno, a Roma, dove ha una stanza, anzi più di una, destinata al segretario. Forse non c’è mai andato. Volete mettere Palazzo Chigi, dove pensa di tornare da vincitore, come i toreri quando uccidono il povero animale e l’arena si alza in piedi. Ma ha fatto i conti senza l’oste che, come dicevamo, si chiama referendum proposto dalla Cgil. Lui, i suoi ministri, il suo staff sono stati presi di sorpresa. Ma come, quando, chi ci ha fatto questo scherzo di cattivo gusto? Chi ci rompe le uova nel paniere? Chi osa intralciare il percorso verso le elezioni? Come si è permessa la Camusso? Il ministro Poletti, del Lavoro, che viene dalla Lega delle Cooperative, trova subito la soluzione. Si accelerano le elezioni politiche e del referendum non se ne parla perlomeno per un anno. Dimentica il ministro che nel nostro e anche suo paese l’articolo fondamentale della Costituzione, l’articolo 1, recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Quattro parole chiarissime: democratica, lavoro, sovranità, popolo. Quello che chiedono i quesiti referendari posti da tre milioni e passa di cittadini. Popolo, appunto.
41 mila assemblee, tre milioni di firme, “Pulman dei diritti” in 200 città
Possibile che Renzi ed i suoi non ne fossero a conoscenza? Una improvvisa perdita di memoria? No, non è possibile. Comunque sia, un segno chiaro del distacco del Pd dal paese reale. Alla stesura della “Carta” da cui hanno preso le mosse i tre quesiti referendari hanno partecipato studiosi, ricercatori di altissimo rilievo. La prima presentazione pubblica è avvenuta a Roma il 18 gennaio, nel parcheggio di fronte alla stazione Termini. I media hanno pressoché ignorato l’avvenimento. Da Palazzo Chigi, la solita velina, ignorate il fatto avvertivano i consiglieri economici del presidente. Partiva la consultazione degli iscritti che si concludeva il 19 marzo: in due mesi più di 41 mila assemblee in tutta Italia. Fanno notizia? Ci mancherebbe. Poletti, il ministro del Lavoro, non era informato? Il consenso alla proposta quasi unanime: votano un milione e mezzo di persone: il 98 per cento degli interpellati ha detto sì alla proposta sulla Carta e il 93,59 per cento si è espresso per il sostegno ai referendum abrogativi nella fase di raccolta firme per la legge di iniziativa popolare.
Camusso. “Uno straordinario evento democratico che non ha uguali”
Diceva il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, “la consultazione è stato uno straordinario evento democratico che per numeri e dimensioni non ha uguali. Le forme democratiche di partecipazione sono una nostra caratteristica, non è vero che viviamo nella stagione della mancata partecipazione”. Poi la Cgil si rivolgeva ai cittadini. Un lungo viaggio in giro per l’Italia, il “pulmann di diritti” un’iniziativa senza precedenti: 200 tappe tra grandi città e piccoli centri. Il 29 settembre vengono consegnate alla Camera per la legge di iniziativa popolare sul nuovo Statuto dei lavoratori. E’ anche il compleanno della Cgil che compie 110 anni e, con questo atto forte, festeggia guardando avanti con una sfida per il futuro. Il presidente Renzi e il ministro non sappiamo se hanno inviato alla Cgil telegrammi di auguri. Perlomeno potevano segnare sul calendario le tappe verso il referendum, quella della verifica delle firme da parte della Cassazione. Non lo hanno fatto. Se ne sono dimenticati. Come i media. Solo questo modesto quotidiano con i suoi tre o quattro lettori ha dato l’annuncio del sì della Cassazione. Poi sono arrivati gli altri, fino alla Corte Costituzionale che si pronuncerà sulla ammissibilità dei quesiti refendari nel rispetto della Carta.
Pd. Il referendum Cgil cambia le carte in tavola. Situazione in movimento
Il referendum che verrà ha cambiato le carte in tavola. L’assemblea nazionale non sarà l’avvio di un plebiscito come Renzi vuole. Non solo la minoranza dem che ha votato no, ma anche i cuperliani che hanno votato sì al referendum, richiamano il valore dell’iniziativa della Cgil, la considerano una occasione per ristabilire un rapporto fra i lavoratori e il Pd. Anche ministri come Martina, Orlando, parlano della possibilità di rispondere positivamente ai tre quesiti referendari con iniziative parlamentari, compresa una modifica del Jobs act, ripristinando diritti dei lavoratori in caso di licenziamento. Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, indica anche i modi e i tempi per dare risposte positive al referendum che “si deve fare” dice, così come tante sono le critiche arrivate al ministro Poletti, che il referendum vuole, di fatto, eliminare. L’immancabile senatore Pietro Ichino dice no, guai a cambiare la legge. Con lui il responsabile economico del Pd, Taddei. Per il senatore addirittura “il quesito è inammissibile”. Non gli basta. Fa sapere che “il Sì fermerebbe il Paese”. Quasi che si muova davvero. A muoversi in realtà sono solo i poveri. Sempre di più. Ma questo a lui non interessa.
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