
Un Assange ci mancava proprio. In queste ultime ore della più torbida e sgradevole campagna presidenziale americana che si ricordi, si stenta a capire se ci sia e quale possa essere l’elemento decisivo a risolvere la partita in favore di Donald o di Hillary. È stato osservato che in questa lunga contesa, Donald Trump abbia avuto pochi alleati. Alleati di peso, naturalmente. Contrastato dal suo stesso partito (Jack Ryan, il presidente dell’assemblea, ha dichiarato di appoggiare Trump, ma si è rifiutato di fare campagna con lui), osteggiato da Wall Street (appena i sondaggi hanno registrato una crescita dei consensi a suo favore, la borsa è precipitata: otto giornate consecutive in rosso), privo dell’appoggio della gran parte dei media (fu il Washington Post all’inizio di ottobre a rendere pubblico il famoso video del 2005, nel quale Trump esprimeva, col linguaggio che gli è proprio, la sua opinione sulle donne), apertamente snobbato dai grandi nomi del mondo della cultura e dello spettacolo (non è riuscito neppure ad utilizzare per i suoi comizi la colonna sonora dei Rolling Stones, di Neil Young, dei Queen; perfino la famiglia Pavarotti gli ha negato l’uso della voce del grande tenore); il candidato repubblicano, insomma, ha combattuto una battaglia abbastanza solitaria.
Ma il suo linguaggio e i suoi argomenti sono di quelli che per l’elettorato conservatore repubblicano non hanno bisogno di endorsement illustri. La sua rudezza e la sua malagrazia sono vissuti come garanzia di autenticità e di ribellione contro un establishment che, soprattutto in politica estera, scontenta la vecchia e mai doma anima isolazionistica degli americani. E infatti, se in patria, Trump non trova molti amici, dall’estero ha ricevuto e riceve apporti se non decisivi, certamente strategici. Se Hillary può fare i suoi ultimi comizi avendo sul palco, accanto sé beniamini della young generation come Beyoncé (per calamitare sui democratici un voto giovanile che appare di non facile conquista), a Donald viene in soccorso, dall’ambasciata ecuadoriana a Londra, la popolare e autorevole voce di Julian Assange.
Intervistato da Russia Today (che è come dire un network in tasca a Vladimir Putin), il papà di Wikileaks spara pesantissime accuse ad Hillary Clinton, che definisce la principale sponsorizzatrice della decisione americana di fare la guerra in Libia, nel marzo del 2011. Barack Obama, sostiene Assange, non era affatto convinto della opportunità di intervenire, ma la Clinton – proprio in funzione della sua aspirazione alla Casa Bianca – alla fine lo persuase. È lei, conclude Assange, che porta la responsabilità di quella operazione. Operazione che, è bene ricordarlo, non è mai piaciuta agli americani (a maggior ragione dopo il suo deludente esito). Che fosse o no concordato con Trump, questo contributo combinato di Assange e Putin, rende ulteriormente faticosa la difesa che la Clinton oppone alla rimonta di Trump: rimonta diventata davvero significativa dopo le famose rivelazioni del capo dell’FBI, James Comey, sull’indagine aperta nei confronti di Hillary per le 650.000 email che potrebbero contenere elementi accusatori nei confronti della candidata democratica.
Ed è proprio su quel “potrebbero contenere” che si è pronunciato, con una severa critica, il presidente uscente Barack Obama, che ha contestato a Comey questo pesantissimo intervento nel vivo della campagna elettorale non sulla base di prove certe, ma solo di ipotesi o di illazioni. Peraltro, non solo la vicenda delle email di Hillary ha suscitato l’irritazione dei democratici, ma anche la successiva mossa dell’FBI, che ha riesumato una vecchia storia, che risale al 2001, quando Bill Clinton concesse un discutibile perdono a Marc Rich, un finanziere dal profilo più che dubbio. Con il suo intervento, doveroso in questa fase cruciale, Obama ha anche teso a smentire quanti lo vedono molto tiepido e defilato anziché decisamente al fianco di Hillary Clinton. Del resto, è questo un momento in cui occorre che tutto il campo democratico si compatti attorno a Hillary Clinton. Infatti, gli ultimi sondaggi segnalano più che un calo generale del consenso alla candidata, lo spostamento di voti negli stati-chiave.
Se sul piano nazionale, nelle intenzioni di voto, la Clinton mantiene un piccolo ma importante vantaggio su Trump (45 a 42 per Cbs/New York Times; 47 a 44 per Washington Post/Qbc), è negli stati di “confine” che, a giudizio dei sondaggisti, si sta verificando uno slittamento a favore dei repubblicani. Ricordiamo che il presidente degli USA sarà votato l’8 novembre, ma sarà ufficialmente nominato il 19 dicembre dai delegati eletti, stato per stato. E la nomina spetterà al candidato che potrà contare sulla maggioranza assoluta dei delegati: 270. Fino a ieri sembrava che la Clinton avesse già la certezza di contare su 290 delegati. Ora invece, forse per effetto delle bordate dell’FBI (cui ora si aggiunge anche l’intervista ad Assange), gli analisti dicono che la Clinton è scesa sotto quella soglia di sicurezza e che le si possono assegnare con certezza solo 268 delegati, mentre Trump ne avrebbe 204. Dalla conta sono esclusi i delegati che verranno eletti negli stati in bilico: in particolare in Florida (forse decisiva con i suoi 29 delegati), nell’Ohio (18) e nell’Arizona (11), che prima pendevano verso la Clinton e ora sembrano invece più orientati verso Trump, nel North Carolina (15) e nel New Hampshire (4).
L’impressione è che, se non verranno prodotti altri colpi di teatro come quelli di Comey (e ora di Assange), la Clinton sia tuttora in grado di conservare un vantaggio sufficiente a conquistare la presidenza. Ma il suo indebolimento negli ultimi giorni potrebbe vanificare l’obiettivo ambizioso di ottenere la maggioranza del Congresso, cioè di Camera e Senato. E il non poter controllare il voto del Congresso costituisce, come la presidenza Obama ha dimostrato, un determinante dato di debolezza.
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