Referendum. Guerra civile nel Pd. Bersani pone quesiti duri come pietre. Renzi e Orfini replicano con gli insulti

Referendum. Guerra civile nel Pd. Bersani pone quesiti duri come pietre. Renzi e Orfini replicano con gli insulti

È bastata un’intervista pubblicata da Repubblica a Pierluigi Bersani, e poi smentita dall’ex leader del Pd nella mattinata di sabato, ad alimentare il fuoco del conflitto interno tra posizioni ormai inconciliabili, che da qualche giorno covava sotto la cenere. Bersani ha sostenuto di aver parlato ad un’assemblea con 200 persone a Faenza, giovedì, ma di non aver mai rilasciato interviste a Repubblica: “Non ho parlato a Repubblica. Approfitto per dire che io ho parlato a Faenza di fronte a 200 persone. Sta invadendo nella stampa, non è la prima volta, l’idea di inventarsi le interviste. Io non sono d’accordo. Non mi si può obbligare a fare un’intervista, è vero?”. L’intervista di Repubblica è firmata da Andrea Carugati, inviato a Faenza, il quale scrive che Bersani ha parlato “al cronista e alle 200 persone venute giovedì sera all’auditorium di Sant’Umiltà di Faenza”. Dovremmo dunque pensare che l’articolo di Repubblica abbia rispettato le parole dette da Bersani, il quale smentisce di aver parlato con Carugati, ma nulla dice sul contenuto dell’intervista. E in realtà, il ragionamento di Bersani a Faenza è effettivamente una provocazione al dibattito. Cos’ha detto?

I quattro interrogativi lanciati da Pierluigi Bersani sono scogli che vanno affrontati

Intanto, Bersani ha toccato la questione della cosiddetta “vocazione maggioritaria del Pd”, ovvero del partito unico che riesce ad essere la somma di più soggetti del centrosinistra, e si presenta da solo alle elezioni, anzi su questo assunto formula la nuova legge elettorale, l’Italicum. “Il film delle europee e del 40% è finito” ha affermato Bersani. “Quella era solo un’amichevole e i voti di destra sono arrivati per questo. La Ditta per me è il centrosinistra, di cui il Pd deve essere la principale infrastruttura. Dobbiamo fertilizzare quello che sta attorno a noi, promuovere associazioni che stanno un po’ dentro e un po’ fuori”. Insomma, per Bersani, il centrosinistra non può esaurirsi nel Partito democratico, e pertanto deve tornare ad essere forza di coalizione. Il primo sasso contro Statuto e politiche del Pd è stato tirato. In attesa del secondo sasso: chi vota per il segretario e i gruppi dirigenti del partito? Gli iscritti, sostiene Bersani: “far eleggere il segretario del Pd dagli iscritti e lasciare le primarie di coalizione per la scelta del candidato premier”. Non è una querelle di poco conto, perché ripropone nel dibattito politico una vertenza che è stata abbandonata come frutto delle organizzazioni politiche del Novecento e che invece non è stata risolta nel XXI secolo, la forma partito e la legittimazione derivata da voto e dalla partecipazione degli iscritti, non dalle primarie aperte a chiunque. Terzo sasso scagliato da Bersani: il congresso del Pd fondamentale per capirne le trasformazioni politiche e perfino antropologiche: “Per fare un congresso in modo serio avremmo dovuto partire almeno sei mesi fa. A Roma dopo la sconfitta non si è fatta neanche una riunione e non si è dimesso nessuno. In mezza Italia siamo troppo permeabili a fenomeni che come minimo chiamerei di trasformismo. Prima del congresso – sottolinea Bersani – ci vuole un appuntamento nazionale per cambiare lo statuto: una volta si chiamava conferenza di organizzazione, se adesso vogliono trovare un nome inglese a me va bene anche chiamarlo Leopold”. Quest’ultimo termine, Leopold, è un’abile provocazione nei confronti del segretario-premier Renzi, naturalmente. Il quarto sasso è scagliato contro la riforma costituzionale e le differenze tra sostenitori del sì e del no: “a domanda secca, tra Grillo e Verdini io scelgo il primo. Noi non dobbiamo demonizzare, ma essere sfidanti e competitivi con le ragioni di quell’elettorato. E aggiungo: con quello che sta accadendo nel mondo a destra, il M5S ha dato una mano a tenere il  sistema in equilibrio, portando l’insofferenza sul terreno parlamentare”. E poi, “ci deve essere anche un pezzo di sinistra che mette i piedi dentro questo magma del No e cerca di interpretarlo”. Tutto sommato, le questioni poste da Bersani sono le medesime che altri esponenti di spicco nel Pd hanno posto nei giorni scorsi, a partire dagli articoli di Alfredo Reichlin pubblicati da l’Unità. Ora, invece di assumere il ragionamento di Bersani, le sassate bonarie ma efficaci, come pretesto per ribadire le differenze, per spiegare in cosa sbaglia, per alimentare il dibattito, soprattutto per responsabilità nei confronti dello stesso elettorato del Pd, dai vertici del partito sono giunte le solite, tradizionali, classiche manganellate. Nulla nel merito, solo slogan e insulti, contro Bersani e coloro che come lui sollevano quesiti rilevanti sul più grande “partito di centrosinistra d’Europa”, come lo giudica Renzi.

Orfini: “incendiaria l’intervista di Bersani”. Renzi: “qualcuno a sinistra che fa rima con …ani, come Schifani, ha cambiato opinione”

Per il presidente del Pd, Matteo Orfini, “tutti quelli che hanno a cuore il Pd dovrebbero tifare per un accordo sull’Italicum. Trovo sconcertante leggere l’intervista di ex un segretario del partito, a cui voglio bene, che bombarda ogni tentativo di dialogo. Lo trovo sconcertante. Sono interviste incendiarie e fuori tempo che non servono a nessuno”. Quindi, secondo la logica di Orfini, riproporre le domande sul senso e sulla natura del Pd equivale a bombardare ogni tentativo di dialogo. Orfini comunque continua a manganellare Bersani: “Noi lavoriamo tutti i giorni faticosamente per riunire il Partito Democratico. Evidentemente c’è chi preferisce scherzare o lavorare per dividerlo. Ma non penso che vogliano questo i nostri elettori”. Eppure Bersani, come anche Reichlin, ha sostenuto pochi giorni fa che solo con “l’esercito” sarebbe andato via dal Pd. Ma la manganellata più sonora, l’insulto più indegno, arriva proprio dal premier e segretario Renzi che da Trapani, assimila Bersani a Calderoli e Schifani con parole abbastanza insolenti: “Calderoli con la camicia verde ha fatto la legge elettorale e poi ha detto che era una porcata… un altro statista. Tra l’altro Calderoli l’ha votata la riforma e poi ha cambiato idea. Come Renato Schifani, che ha parlato in Aula e in tv ha detto che avrebbe votato sì e poi ha cambiato idea. Come altri ‘…ani’. La mia battuta è per quelli di sinistra perché c’è qualcuno a sinistra il cui nome fa rima con Schifani che ha fatto la stessa cosa… Libertà”. Francamente, questo livello, infimo, del dibattito pubblico, soprattutto da parte di colui che deve rispettare equilibrio istituzionale e responsabilità politiche, ci allarma, specie se in gioco vi è l’Italia democratica. Renzi si affanna a negare che il nostro paese stia scivolando verso una deriva autoritaria, tuttavia le sue risposte a Bersani manifestano il fastidio verso chi dubita, critica, non è disponibile a cedere al pensiero unico. Il tratto pertanto è tipico della fenomenologia dell’autoritarismo, ed è stato più volte sottolineato ad esempio da Hannah Arendt. E questo è un atteggiamento che egli manifesta indifferentemente con “nemici” esterni e presunti “nemici” interni, coloro che appartengono alla sua stessa comunità politica.

La minoranza del Pd pare aver compreso, finalmente, l’altezza della sfida e incalza il premier e i vertici renziani

La minoranza del Pd pare finalmente averlo capito, e incalza. Il senatore Carlo Pegorer, ad esempio, replica altrettanto duramente agli attacchi contro Bersani: “Il presidente del partito e il portavoce parlamentare del pensiero unico farebbero bene, prima di commentare opinioni legittime, a mio avviso più che giuste, a ricordare quanto avvenuto nelle serate del Capranica anche grazie al loro protagonismo. Né possono dimenticare che qualche decina di giorni dopo l’elezione di Mattarella il premier impose il voto di fiducia sulla legge elettorale e da parte loro non ci fu alcuna critica né opposizione. Ogni tanto sarebbe bene guardare ai fatti che sono seguiti a quei difficili giorni della vita del Pd. Il campo del centrosinistra è più largo del partito personale, a senso unico. E sarebbe bene tenerlo sempre presente”. Mentre il deputato Davide Zoggia rileva che il Comitato del sì “cala la maschera dell’allargamento dei poteri dell’esecutivo” grazie alla riforma costituzionale di Renzi-Boschi: “Citando un’intervista di Indro Montanelli, che asseriva quanto fosse giusto cambiare la Costituzione per dare più potere all’esecutivo, finalmente si riconosce implicitamente il vero obiettivo di questo referendum: cambiare la forma di governo, togliendo poteri al Parlamento in favore dell’esecutivo e del suo capo. Evviva la sincerità”. È esattamente questa l’accusa di maggior peso che numerosi e illustri costituzionalisti muovono nei confronti della riforma costituzionale, una sorta di premierato forte e la fine del parlamentarismo. Che finalmente anche parte della minoranza del Pd stia uscendo dal guscio afasico nei confronti della riforma, dove si era rifugiato, è un buon segno, che va apprezzato. Forse è per questa ragione che si moltiplicano gli attacchi alla baionetta della maggioranza, come nei confronti di Massimo D’Alema e di altre centinaia di esponenti dello stesso Pd. La maggioranza renziana teme di perdere il referendum, evidentemente. In vista del prossimo 4 dicembre, insomma, Renzi, girando per l’Italia, ne dirà di parole contro chiunque gli si opponga, e così farà il coro dei suoi seguaci, di prima, seconda, terza o quarta ora. E ogni giorno avrà la sua polemica. Tuttavia, gli interrogativi di Bersani, nonostante tutto, meritano risposte molto serie.

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