
È morto. Se n’è andato, chissà dove. Solo il male poteva metterlo ko. Muhammad Alì ha combattuto contro l’avversario più difficile, il morbo di Parkinson. 30 anni di sofferenze, ma non aveva mai smesso di essere, in tutto, un grande campione, non solo sui ring di tutto il mondo ma nella battaglia per affermare i diritti civili, di tutti, neri e bianchi, vietnamiti e americani. Testimone di quale ruolo può svolgere lo sport, come nel caso di quegli atleti neri, frecce sulle piste di terriccio rosso che levarono i pugni al cielo, loro made in Usa, osarono compiere un gesto che, nella storia, era stato proprio dei lavoratori in lotta, della solidarietà fra i popoli di tutto il mondo che lottavano per l’emancipazione, contro le guerre.
Tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta prese nelle mani la “sua” bandiera a stelle e strisce
Nel 1996 prese nelle mani ancora una volta la “sua” bandiera, quella della “sua” America e la fece sfilare nel grande stadio di Atlanta, ultimo tedoforo. Era già malato, sfidò il morbo, ma non poteva mancare alla sfida più importante della sua vita. L’America delle discriminazioni razziali, perbenista, guerrafondaia lo aveva detronizzato. Non c’erano riusciti tanti pugili. Dovette subire l’umiliazione che solo una grande personalità come la sua superò, a testa alta, la storia gli darà ragione. La bandiera a stelle e strisce sventolava nelle mani di un uomo che aveva osato rifiutare la chiamata alle armi, che non volle combattere in Vietnam non perché avesse paura ma, come disse, “Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”. Noi con lui ci battevamo nelle strade, manifestavamo per la pace, stavamo dalla parte dei vietcong.
L’America conservatrice gli tolse la licenzia di combattere ed il titolo mondiale
Per l’America conservatrice, razzista, quella degli incappucciati che bruciano vivi i negri, respingere la chiamata alle armi, era una offesa non tollerabile. Gli fu tolta la licenza di combattere, la perdita del titolo nella seconda parte degli anni sessanta. Oggi Obama, commosso come tanti americani, come una moltitudine di cittadini di ogni parte del mondo, ha detto che contribuì a rendere migliore il mondo. Ogni suo gesto, ogni sua parola, erano meditati. Non lasciava niente al caso, alla improvvisazione, così come quando decise che Cassius Clay non era, non poteva essere il suo nome anche se proprio con quel nome aveva vinto l’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Racconta la leggenda che il giovanotto abbia gettato quella medaglia in un fiume dopo che un cameriere bianco si era rifiutato di servirlo. Chissà che proprio quella medaglia gettata in fiume lo portò a rifiutare quel Cassius Clay, nome da negro che non sopportava. Martin Luther King, Malcolm X furono i suoi maestri. Si convertì all’Islam e diventò Muhammad Alì. E con quel nuovo nome nel 1964 conquistò il titolo mondiale contro Sonny Liston, un picchiatore, cattivo, feroce, se così si può definire un pugile che non solo vuole vincere ma demolire l’avversario. Vinse e poi nella rivincita Liston restò in piedi un solo round. Forse memore dei colpi subiti ritenne opportuno scappare subito. Non si è mai saputo, Muhammad Alì non lo ha mai detto. Se un colpo vi fu oppure Sonny tagliò la corda. Amato da moltissimi che facevano le ore piccole, quelle della notte, per vederlo al centro del ring, quasi danzare e colpire l’avversario.
Una farfalla che ti danza attorno e un’ape che ti punge. La forza dei suoi pugni
Una farfalla che ti danza attorno e un’ ape che ti punge. Così lo descrivevano i grandi cronisti della boxe, la noble art, definizione che piaceva molto ad Alì e ai sui tanti fans, che disturbava invece chi provava per lui un odio feroce, un giovanotto che si era permesso di dire no alla bandiera a stelle strisce che lo voleva in Vietnam, che aveva portato con orgoglio ad Atlanta in una Olimpiade che metteva insieme i colori della pelle di tutto il mondo. Diceva Alì che “I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. La pace, l’eguaglianza, la libertà, la giustizia, la fine delle discriminazioni razziali, la lotta contro la povertà, il suo sogno, entro e fuori dal ring. Proprio per questo in particolare tanti giovani lo hanno amato, quelli che come lui stavano dalla parte degli oppressi, che manifestavano nelle strade di tutto il mondo. Lui lo faceva uscendo dal ring, andando a combattere, a vincere, sapeva che le sue vittorie, ogni vittoria era un punto da segnare nel suo albo d’oro.
Le cronache dei suoi incontri più importanti. Il “fratello nero” amato dai ragazzini
Ricordano le cronache la turnée nello Zaire, 1974, oggi Repubblica democratica del Congo. Una sfida all’ultimo colpo. Foreman, il suo avversario era stato presentato come un amico dei bianchi, un texano gigantesco, metteva paura al solo vederlo. Foreman voleva conservare il titolo di campione mondiale proprio a Kinshasa, Alì rappresentava un uomo che voleva liberare un continente intero. Era il fratello nero, i ragazzini per le strade lo incitavano ad “uccidere” il rivale, l’invasore dell’Africa Nera. Ma Alì non ha mai combattuto per uccidere, ma per vincere. E dopo otto riprese, sofferte, ebbe la meglio su Foreman. Si parlò di un match come di “una vera e propria autobiografia di un mito”, di fronte a sessantamila spettatori che gridavano “uccidilo, uccidilo”. Non era andato in Vietnam perché non voleva uccidere i vietcong, ci viene a mente la bella canzone di Gianni Morandi, per i giovani di allora un inno alla pace. Dirà, raccontano le cronache, che i colpi di Foreman “facevano male, ogni suo colpo ti provocava qualche danno, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso”. Già affetto dal Parkinson volle dare un ultimo saluto a Joe Frazier che nella storia del pugilato di quegli anni era stato il suo rivale più forte, cattivo, antipatico. Contro di lui combatté tre volte.
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