Lo sciopero generale della scuola del 20 maggio manifesta quale sarà il terreno di scontro e di conflitto per l’autunno

Lo sciopero generale della scuola del 20 maggio manifesta quale sarà il terreno di scontro e di conflitto per l’autunno

Aveva ragione Antonio Gramsci, quando parlava del ruolo e della funzione sociale di quello che chiamava “ceto intellettuale”: per effetto della sua consapevolezza critica, della sua visione del mondo avrebbe fatto paura al potere. È quanto accaduto il 20 maggio con lo sciopero generale dell’intero settore della conoscenza, dalle maestre d’asilo ai docenti di ogni ordine e grado, dai ricercatori e dai professori universitari al personale tecnico amministrativo ai dirigenti scolastici. Il mondo della scuola, dell’università, della ricerca, dei conservatori ha deciso di incrociare le braccia per protestare contro le politiche, anche e soprattutto del governo Renzi, sull’istruzione. Lo sciopero è stato accompagnato da iniziative locali e regionali in tutta Italia, con adesioni elevate in Toscana, Piemonte, Liguria, Sicilia, Lazio, Puglia, Marche. E la parola d’ordine “la scuola vera” risuonava come hashtag sui social network. La verità è che questo ceto intellettuale, maltrattato e bistrattato da diversi governi, nonostante i proclami e le promesse, viene costantemente messo sotto scacco, perché è quel segmento della società che, come affermava Gramsci, matura e diffonde, con l’insegnamento, un sapere critico. Ma si sa, soprattutto alla nostra ministra Giannini, il sapere come critica non piace, lei è più orientata verso quel “saper fare” le cui condizioni di insegnamento e di apprendimento sono dettate dal mercato. Si è diffuso uno strano orientamento nel governo Renzi, consolidato con la legge 107 del 2015, secondo cui la civiltà del nostro Paese può fare a meno della “scuola vera”, dell’università di massa, della ricerca pubblica, dei tanti conservatori di musica e delle accademie d’arte. Perciò, Renzi e Giannini, con decisione ideologica, hanno pensato di disinvestire su tutto questo straordinario patrimonio, umano e professionale, e di riorganizzare scuola e università secondo i dettati del “mercato” (e davvero non si capisce a quale “mercato” facciano riferimento). Per questo, persistono nel manganellare docenti e personale negando loro il diritto al rinnovo del contratto, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale imponga di intervenire, oppure proponendo, come all’intero settore pubblico, un aumento di 7 (sette!) euro lordi al mese. Dietro la negazione del rinnovo del contratto vi è dunque il tentativo di piegare la volontà di questo segmento del “ceto intellettuale”, la cui potenzialità di critica del sistema e del potere, il governo teme. Per questo, è strategico proseguire nella lotta per ottenere il miglior contratto nazionale possibile, non solo per ragioni salariali evidenti, ma perché quello è il terreno politico sul quale si gioca la partita vera. Per questo, anche coloro che il 20 maggio non hanno partecipato allo sciopero, per le più diverse ragioni, farebbero bene a riflettere sulle ragioni per le quali il contratto nazionale di questo particolare, strategico, sensibile settore, non viene rinnovato. Per questo sono risibili le parole della ministra Giannini, che rivolta alla Cgil fa sapere di avere assunto decine di migliaia di docenti e aperto il concorso ad altri 63mila. Nonostante le stabilizzazioni, la questione contrattuale resta inevasa, ed è su questa battaglia che occorrerà concentrarsi nei prossimi mesi, fino allo sciopero generale di tutto il settore pubblico in autunno, come più volte affermato oggi in molte piazze da molti dirigenti sindacali confederali.

Non a caso i leader dei sindacati confederali della scuola, Pantaleo, Gissi e Turi, insieme con lo Snals-Confsal, hanno deciso di dare la massima priorità alla questione contrattuale, per colmare la distanza salariale che esiste tra i lavoratori italiani della scuola e quelli di altri Paesi europei, ma anche quelli di altri settori pubblici (un dipendente di Palazzo Chigi guadagna in media ogni anno un salario doppio rispetto a un dipendente della scuola pubblica), e la distanza culturale che vede sempre più il sistema pubblico dell’istruzione fortemente penalizzato e ricattato. Puoi stabilizzare, dicono giustamente i sindacati al governo – e i numeri sono relativamente ancora bassi – ma se non risolvi la ferita aperta dal mancato rinnovo del contratto nazionale, scuola, università e ricerca pubbliche resteranno le cenerentole del sistema pubblico. Pantaleo, leader della Flc Cgil, lo ha più volte ribadito nel suo intervento a Firenze. Gissi, segretario generale della Cisl, lo ribadisce con forza a Roma, guidando il corteo verso il Miur a viale Trastevere: “”Bontà sua. La ministra Giannini dichiara che quando chiediamo di rinnovare il contratto facciamo cosa legittima. Ci mancherebbe altro! Poi si ferma lì e rimanda la palla alla sua collega titolare della Funzione Pubblica, visto che è l’intero pubblico impiego a essere interessato a questo rinnovo. Una ragione davvero singolare, che tuttavia non vale per noi a sollevarla dalle responsabilità di cui è investita, come membro di questo governo e più direttamente per il ruolo che ricopre”. Turi, leader della Uil scuola, a Napoli ha poi confermato:  “Ci preoccupa la direzione che sta prendendo la nostra scuola all’indietro nella storia, ci preoccupano le ‘scuole di tendenza’, ci preoccupa la trasformazione genetica che sta avendo la scuola ad opera delle legge 107”. Lo sciopero del 20 maggio per i sindacati confederali e lo Snals-Confsal è stata l’occasione per lanciare a tutto il paese l’allarme sulla scuola pubblica – in tutte le sue articolazioni. Non è solo una vertenza, è un grido di dolore che si leva da quel ceto intellettuale gramsciano reso sempre più impotente dalla protervia del governo. Non è per caso, infine, che questo governo, oltre a non affrontare la questione contrattuale, continui a delegittimare i sindacati, non convocandoli, né accettando consigli e punti di vista.

Sul piano delle reazioni politiche, registriamo una importante dichiarazione di Stefano Fassina, candidato sindaco per Sinistra Italiana a Roma: “La mia solidarietà va quindi ai lavoratori dell’Università, della ricerca e dell’Afam che oggi sono scesi in piazza per rivendicare condizioni lavorative all’altezza del loro valore e il diritto di ricevere dallo Stato quel sostegno che è sancito dall’articolo 9 della Costituzione: più risorse, distribuite in modo sensato e accompagnate da un ripensamento dei meccanismi di valutazione e di valorizzazione delle professionalità”. Il sostegno di Carlo Galli, deputato e docente a Bologna di Dottrine Politiche, per il quale “la legge 107 si colloca all’interno di un disegno ideologico più ampio, teso a cambiare − insieme alle riforme costituzionali ed elettorali e al diritto del lavoro − forma e sostanza della nostra democrazia. Questo movente ideologico si manifesta nell’aver assunto un’interpretazione dell’autonomia scolastica come concorrenza, e quindi disuguaglianza, fra scuole pubbliche, e nell’aver escluso il sapere critico come fondamento e finalità dell’educazione scolastica”. Ecco, sintetizzato bene da Carlo Galli, il terreno di scontro e di conflitto tra questo “ceto intellettuale” e il governo Renzi, un terreno di scontro sociale, culturale, salariale, contrattuale.

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